La morte di Federico Barakat -una morte atroce e orribile dopo anni di persecuzioni atroci e orribili da parte del padre- deve avere un senso.
E ricevere Giustizia.
“Unicamente” giustizia.
In questo articolo si cerca di dimostrare che proprio da questa vicenda può infatti arrivare una rivoluzione nei rapporti tra genitori di bambini impegnati in incontri protetti (e nel caso minacciati dall'altro partner), e Servizi Sociali.
E questo proprio seguendo la logica della sentenza di Cassazione.
SINTESI DEI PUNTI ESPRESSI NELL'ARTICOLO:
1) Gli operatori dei "Servizi" che hanno seguito il caso di Federico Barakat hanno deciso di non sospendere gli incontri in base ad una attività diagnostica psicologica e psichiatrica da loro posta in essere (essendo il loro un compito professionale fondato quantomeno anche sulla psicologia clinica e sulla psichiatria);
2) Le loro responsabilità andrebbero valutate non in relazione alla mancata custodia, ma in relazione a tale errore diagnostico, in seguito al quale hanno certificato l'assenza di pericolosità e di patologie psichiatriche con lesività etero o auto diretta nel padre di Federico, e alla conseguente prosecuzione degli incontri, motivata da questa attività diagnosticata;
3) una lettura della sentenza di Cassazione in questione (come il parere espresso, a dire della signora Penati, dal dr. Forno in relazione alle modalità che la stessa aveva per salvare Federico) fanno affermare che se i "Servizi" non devono garantire la custodia e la tutela fisica del minore, questa può spettare ed essere assunta dal genitore con lui convivente, il quale, in assenza di adeguati supporti clinico-diagnostici può, qualora intraveda un pericolo nel comportamento dell'altro genitore, interrompere sua sponte gli incontri (tanto che il dr. Forno -secondo quanto afferma la madre di Federico- avrebbe dichiarato che l'unico modo per salvare il bambino era una fuga all'estero).
Al termine dell'articolo, il link verso le donazioni con cui sostenere la causa a Strasburgo di Antonella Penati, la madre di Federico, contro lo Stato Italiano
NOTA:
questo è un post con il quale alcuni dei miei lettori potrebbero non
essere d'accordoNon fa niente. Più importante è riflettere
sul senso che può avere morire a otto anni: per mano del proprio
padre, e in un locale specializzato in “Incontri Protetti”.
Federico
Barakat, ci dice la Cassazione (Corte
di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 27 gennaio – 6 marzo 2015,
n. 9855, Presidente Sirena – Relatore Montagni),
è morto ammazzato dal padre ma chi
organizzava i suoi incontri protetti e presenziava agli stessi non è colpevole perché non era loro compito tutelarlo
da mani omicide e folli, bensì badare “unicamente
– al sostegno educativo e psicologico del bambino”.
Questo
dice, alla lettera, il testo della sentenza di Cassazione che ha
mandato assolti, “perché
il fatto non sussiste
”
gli operatori dei Servizi Sociali che avrebbero dovuto vigilare gli
incontri tra Federico ed il padre.
“In
conclusione,”
sostiene la Suprema Corte “il
complessivo tenore dei provvedimenti giudiziari che scolpiscono, nel
caso, il contenuto degli obblighi protettivi specificamente gravanti
sugli operatori dell’Ente affidatario, evidenzia, in termini di
certezza, che le finalità protettive erano orientate – unicamente
– al sostegno educativo e psicologico del bambino, a fronte della
esasperata conflittualità della coppia genitoriale”.
Qualcuno potrebbe fare molta ironia, sul
“sostegno”
effettivamente
dato
a questa
piccola vittima della ferocia genitoriale, paterna e islamica
(perché, dice la madre, questo
è stato anche uno scontro fra culture).
E altrettanta ironia qualcuno potrebbe voler fare sulla “protezione” ricevuta negli incontri
-appunto- “protetti”, incontri a cui i “Servizi”
(un termine che in Italia assume sempre -chissà perché- significati
sinistri, di operazioni deviate e con morti) a cui i "Servizi", dicevamo, lavoravano per “offrirgli
una parte buona del padre”,
come avevano scritto alla madre, che li implorava di sospendere gli
incontri, terrorizzata dalle minacce del padre di Federico e
illuminata, nella
sua assoluta consapevolezza,
dalla paura del bambino.
Sarebbe troppo
semplice e troppo
crudele chiedersi in
che cosa
è consistito allora questo loro “lavoro” per dargli tale "parte buona" del padre, di quel padre che lo ha ammazzato; troppo
semplice e crudele domandarsi adesso
cosa sarebbe accaduto se i "Servizi"
avessero
cercato di offrirgli invece “una parte cattiva” del padre: troppo
semplice e troppo
crudele, quanto -però- disperatamente
inutile.
Perché
la verità è che in una tragedia del
genere,
a cui le
frasi assolutorie
per chi doveva
organizzare gli incontri protetti aggiungono
una cruda luce di prosaico burocraticismo, l'ironia non arriva né a
rischiarare alcunché, né, tanto
meno, a lenire
o dar
sollievo.
Anzi, l'ironia diviene graffio profondo su ferite incurabili perché
ti costringe a pensare che quel qualcosa che poteva
davvero salvare Federico era a pochissimi centimetri da tutti.
Bastava poco. Pochissimo.
Bastava
chiudere una porta.
Bastava
solo che loro, i “Servizi”, ascoltassero non sé stessi, gonfi
solo del proprio teorizzare
il proprio teorizzare, adusi
a pensarsi sempre
come inviati del cielo e del destino, ma
ascoltassero
invece
la
mamma del bambino
e il povero Federico.
Bastava, ma non è stato fatto.
E per questo credo che la morte di Federico possa oggi avere un senso. Un senso importante.
E servire a cambiare le cose.
Per provarci, partiamo proprio dall'assoluzione.
L'assoluzione degli operatori dei "Servizi" che avevano organizzato gli incontri protetti, arriva dunque a mettere una sorta di chiosa finale a tutto,
ricordando che “il
fatto non sussiste”
perché -appunto- compito dei "Servizi" era quello di
pensare “unicamente
– al sostegno educativo e psicologico del bambino, a fronte della
esasperata conflittualità della coppia genitoriale.”
Ovviamente,
la madre del piccolo Federico non ci sta, e ha deciso di ricorrere
alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Non può accettare che lo
Stato italiano se la cavi in questo
modo dopo che lei, grazie all'intervento di chi doveva
assisterla e garantire a Federico
un
“ambito protetto”.
E
per poter vedere lo stato italiano condannata per quanto accaduto a
suo figlio, lancia una campagna di donazioni per ricavare quanto
necessario a tale impegno.
È
evidente che la sentenza in
questione
-Corte di Cassazione, sezione IV Penale, Sentenza 27 gennaio – 6
marzo 2015, n. 9855, Presidente Sirena – Relatore Montagni -spacca
in quattro il capello della definizione letterale dell'incarico dei
servizi sociali.
Con risultati che sono, però, illuminanti.
Perché
la Suprema Corte, affidando a quell'“unicamente” l'assoluzione
degli operatori già condannati, sigilla -ad un livello- le loro
responsabilità
relativamente all'evento omicidiario; ma -in modo paradossale- non
solo le riapre da un altro punto di vista, ma offre al contempo
ipotesi del tutto innovative
circa
la gestione e i comportamenti che si possono e si devono tenere in
possibili tragedie del
genere.
Qual
è il punto da considerare?
A
mio avviso
non è quello della
mancata tutela del piccolo nel corso degli incontri.
Il
compito degli operatori -descritto, sia pur crudelmente, alla lettera- non era effettivamente
quello
di
tutelare Federico nel senso della custodia e protezione fisica.
Da
questo
punto di vista la sentenza in
questione
si attiene rigorosamente alla natura dell'incarico affidato ai
"Servizi".
Offrendo però -lo vedremo poi- spiragli logici di grande portata.
Quello
che però va inquadrato è che la prosecuzione degli incontri si è avuta in virtù del parere espresso -a quanto racconta la signora Penati, madre di Federico- dalla Responsabile dei "Servizi", relativamente a tre aspetti della vicenda.
A
più riprese, hanno dichiarato -così almeno risulta dai resoconti della mamma di Federico- che il piccolo poteva incontrare Mohammed Barakat perché:
1) il padre di Federico non era pericoloso a sé e agli altri, e o comunque non era affetto da
patologie che lo mettessero in condizioni di essere pericoloso a sé
o agli altri;
2) i timori espressi dalla madre di Federico erano irrazionali e non
corrispondevano a una visione adeguata e congrua della realtà,
ma a una problematica psicopatologica che poteva
essere inquadrata come una patologia fobico-ossessiva con
atteggiamenti isterici, o come l'espressione di una sua volontà
alienante;
3) i timori e le ripulse espresse da Federico (vedasi
anche l'enuresi notturna, certificata dal suo pediatra)
non erano atteggiamenti congrui alla realtà
della sua relazione con il padre e del comportamento di questi,
e che i suoi timori appartenevano alla dimensione della patologia e
non a quella di
un corretto esame di realtà;
4) le perizie e le certificazioni mediche che affermavano il contrario non erano da considerarsi attendibili al punto da sospendere gli incontri.
In altre parole, gli operatori dei "Servizi" hanno proceduto ad una attività diagnostica di natura psichiatrica e psicologica, e hanno operato in conseguenza di essa
D'altra
parte, non può pensarsi differentemente, dal momento che i pareri da
loro espressi erano pareri relativi ad aree di chiara ed esclusiva
competenza psichiatrica e psicologica, con una esplicita previsione
di pericolosità personale (pericolosità
da loro negata
in
contrasto con altri pareri diagnostici)
ed una serie di pareri e previsioni sul comportamento del padre,
sulle sue eventuali patologie psichiatriche e sulla loro evoluzione,
sui loro riflessi sul rapporto col bambino,
come sul comportamento, sulle eventuali patologie psichiatriche e
l'esame di realtà della madre di Federico (e di Federico stesso).
Aggiungendo a ciò l'evidenza che il "sostegno educativo e psicologico" fornito dai "Servizi" si fonda sui contributi della psicologia clinica e della psichiatria, tanto che non a caso la direzione è affidata sempre a psicologi e gli operatori sono in gran parte psicologi.
Nel caso di Federico, poi, le decisioni erano appunto prese dalla Responsabile, che è una psicologa, e che ha operato evidentemente sulla base delle proprie conoscenze cliniche.
Da
questo punto di vista, gli operatori dei "Servizi"
hanno indiscutibilmente espresso un classico parere diagnostico
(anche piuttosto articolato) e ne hanno fatto discendere importanti
decisioni a livello giudiziario e a livello amministrativo.
Tra
l'altro
negando appunto la validità di pareri medici presentati specificatamente
dalla madre di Federico a sostegno della sua richiesta di
interrompere gli incontri.
Ad
esempio, e lo cito come uno fra i tanti, veniva negata che l'enuresi
notturna diagnosticata in Federico dal suo pediatra avesse un nesso
causale univoco ed accertato con la oggettiva traumaticità degli
incontri con il padre.
Se tale nesso fosse stato invece accertato,
era evidente che bisognava garantire che le paure del piccolo, causate
da una situazione oggettivamente traumatica e non da fantasie indotte
da un genitore pretesamente alienante, dovevano
avere, come risposta da parte dei “Servizi”, la cessazione dell'evento traumatico, cioè degli incontri.
Lo
stesso dicasi poi per le perizie specialistiche presentate dalla
madre di Federico.
Negarne
la validità è stato, a mio avviso, un atto diagnostico completo in
ogni senso.
O,
a rovescio, un esercizio abusivo di una professione sanitaria.
In
realtà,
il problema in esame non è affatto infrequente. Non è affatto
infrequente, cioè,
che una diagnosi psichiatrica, un parere sulla presenza e
l'evoluzione di una determinata psicopatologia in uno specifico
soggetto, e sulla capacità di intendere e o volere di questi,
vengano emessi da specialisti -o da chi dovrebbe esser tale- per
garantire l'adeguatezza e la legittimità di particolari procedure
amministrative o di eventi di natura privata.
Uno
degli esempi che si può fare è quello del medico psichiatra
che con la sua certificazione rende possibile alla autorità preposta
la concessione di un porto d'armi ad un determinato soggetto:
“risponde
di omicidio colposo per fatto commissivo proprio e non per omesso
impedimento di un fatto altrui il sanitario che rilasci a soggetto,
privo dei requisiti, il certificato di idoneità psicofisica al porto
d'armi,
qualora questi cagioni la morte di una persona con l'arma acquistata
grazie al porto d'armi ottenuto, avendo il sanitario posto in essere
una condotta influente sotto l'aspetto causale sul verificarsi
dell'evento, non escluso dal fatto illecito altrui, ai sensi
dell'art. 41 ultimo comma c.p.
(Nella
fattispecie un medico psichiatra aveva sottoscritto un certificato
anamnesico preliminare per l'ottenimento del porto d'armi ad suo
paziente, affetto da gravi disturbi della personalità ed autore di
molteplici comportamenti auto ed eteroaggressivi, realizzando un
presupposto imprescindibile affinché lo stesso potesse dotarsi di
un'arma da fuoco, con la quale cagionare la morte di due. Persone)”
Tribunale Milano, 08 aprile 2005 - Foro ambrosiano 2005, 2 149
Il
paragone con quanto accaduto a Federico Barakat è evidente: sebbene
il certificato medico non fosse stato scritto (e forse non può
identificarsi nemmeno la stesura di un certificato), è -come si suol
dire- in re ipsa il dato che gli incontri
sono continuati perché è stato emesso un parere vincolante sulla
pericolosità del soggetto, parere questo
riservato esclusivamente agli esercenti la professione medica e
anche,
a quanto ritengo, di psicologo.
Un
altro esempio è quello del notaio che dovendo vendere l'appartamento
di un anziano, deve premunirsi di un parere medico sulla capacità di
intendere e o volere del soggetto in quanto in caso di comprovata
incapacità del soggetto, l'annullamento dell'atto verrebbe a lui
addebitato.
Molto
più semplicemente lo stesso ragionamento vale per il sanitario che,
avendone i requisiti, certifichi l'idoneità di un soggetto alla
patente di guida, che non verrebbe concessa in assenza di tale
certificazione.
Gli
operatori che hanno gestito il caso di Federico Barakat non sono
dunque colpevoli per essersi allontanati dalla stanza in cui si
svolgeva l'incontro tra Federico ed il padre.
Il
vero nodo della questione, a mio avviso,
è nel passaggio precedente, vale a dire nella dichiarazione di non
pericolosità da
loro emessa
a
più riprese e in più occasioni circa
il
comportamento del
padre
di Federico, nell'attività
diagnostica posta in essere riguardo le eventuali patologie di
Mohammed Barakat, nella
previsione che i comportamenti in lui riscontrati, non erano
pertinenti a stati patologici in grado di portarlo ad eventi lesivi.
Lo
stesso dicasi per quanto da loro affermato sulle condizioni psichiche
della madre e di Federico, che a loro parere non erano in grado di
valutare adeguatamente il comportamento del
padre di Federico.
Da
questo punto di vista esiste -a mio avviso- una falla logica nella
sentenza di Cassazione, perché vero è che il compito degli
operatori dei "Servizi" era quello
di
badare
“unicamente
– al sostegno educativo e psicologico del bambino”, ma
è altrettanto vero che la prosecuzione di questo piano di sostegno è
stata stabilita, rispetto alle richieste della madre del bambino che
esponeva una gravissima situazione di pericolosità dell'ex partner
rispetto a lei e al figlio, sulla base di pareri diagnostici ben
precisi che
hanno escluso la pericolosità del padre e affermato che di
patologico c'era
il comportamento della madre.
Bisogna
allora chiedersi se questi
operatori dei "Servizi" hanno sbagliato diagnosi, e se erano autorizzati a
porre una diagnosi.
Allora:
1) Che ci sia stata una attività sanitaria volta a far diagnosi circa la presenza o meno di patologie ben precise e già indicate da altri sanitari, è ben ravvisabile proprio dalle affermazioni e dai comportamenti degli operatori in questione;
2) Che
ci sia stato un errore nella diagnosi, è altrettanto indubitabile: avevano
affermato l'assenza di pericolosità del padre, e il padre ha invece
ucciso il figlio, nel momento in cui gli operatori, forti di questo
loro parere sulla assenza di pericolosità di Mohammed Barakat si
sono allontanati dalla stanza.
3) Che l'errore nella diagnosi ha fatto sì che il piccolo Federico finisse vittima del padre (non essendo impossibile ritenere che gli incontri sarebbero proseguiti se i "Servizi" non avessero sbagliato diagnosi e previsione di pericolosità del padre per sé e o altri.
Da
questo punto di vista, la “prevedibilità”
di cui parla la sentenza di Cassazione che ha mandato assolti gli
operatori dei "Servizi" (“la
regola cautelare violata deve essere necessariamente diretta a
prevenire anche il rischio dell'atto doloso del terzo e che
quest'ultimo deve risultare prevedibile per l'agente che risponde a
titolo di colpa” dice la massima della sentenza in questione),
va inquadrata non con riguardo alla modalità di svolgimento
dell'incontro in cui è avvenuto l'evento lesivo, ma alla luce del
processo diagnostico che ha consentito la prosecuzione degli incontri
negando validità ad altri pareri specialistici, e
posto di fatto una diagnosi di madre alienante a carico della signora
Penati:
“[Ai
Servizi Sociali]
ho incontrato la dott.ssa Termini”
dice la madre di Federico in una intervista a 27ORA del Corriere.it
“che
da subito si è dimostrata contraria alle mie istanze. Mi diceva che
il bambino aveva diritto di vedere il padre comunque, io mi rifiutavo
di portarlo agli incontri perché ero troppo spaventata e lo era
anche Federico che assisteva e subiva le minacce del padre. Lei
sminuiva o ignorava i miei racconti, nonostante tutta una serie di
indicatori di rischio per stalking, minacce anche al bambino, denunce
per aggressioni a mia madre e a me, che mi sono difesa perché ho
alle spalle 27anni di arti marziali. Parlava di Pas, diceva “Lei
discrimina la figura genitoriale.” Mi ha revocato il controllo
sulle visite descrivendomi come una madre iper-protettiva e ansiosa.
Certo che ero ansiosa, sfido chiunque a non essere in ansia in quella
situazione. Anche Federico era in ansia, se ne era accorto anche il
suo allenatore negli ultimi tempi. Si svegliava spesso con degli
incubi, una notte aveva sognato anche che il padre l’aveva ucciso,
chissà cosa gli aveva detto durante i colloqui. Non ci voleva andare
agli incontri. Un giorno mi aveva detto: Mamma amore, quando ho nove
anni vado io a parlare coi giudici.
…
Era
in loro potere interrompere le visite e non l’hanno fatto.
Nonostante un perito forense del tribunale di Milano, Paolo Bianchi,
che aveva respinto la richiesta del padre di Federico di maggiore
libertà nelle visite, raccomandava di non diminuire il grado di
protezione degli incontri e di non allargarli in quanto la
personalità del padre esponeva il bambino a potenziali effetti
devastanti.
E'
evidente che se la perizia del dr. Bianchi è stata disattesa, chi
l'ha disattesa l'ha fatto
attribuendosi un potere di porre diagnosi per
lo meno
identico a quello
del perito che l'aveva emessa.
Che
poi gli operatori in
questione
fossero autorizzati
a fare
diagnosi di questo
tipo e in questo
modo,
è un
dato
su cui riflettere:
ma la dottoressa chiamata in causa dalla signora Penati è definita
psicologa, e dunque
iscritta all'Albo
degli Psicologi.
E
si è assunta la responsabilità
di una diagnosi che sconfessava il parere di uno psichiatra, e negava validità alle affermazioni della madre di Federico.
A
mio avviso, andrebbe dunque verificata la perseguibilità in sede
penale di chi ha emesso -di
fatto, e ripetendoli in più occasioni a voce- i
pareri sulla assenza di pericolosità (e
non
di pericolosità sociale, ma di pericolosità per sé e o per altri)
del
padre di Federico Barakat: o per aver posto una diagnosi errata che
ha poi avuto come conseguenza (mi riporto alla sentenza sopra citata)
la morte del bambino,
o per aver posto una diagnosi che non era autorizzato a porre, sempre
avendo come diretta conseguenza la morte del minore.
È
infatti evidente, oltre ogni contestazione, che vi è un nesso di
causa univoco e indiscutibile tra il parere emesso riguardo alle
patologie psichiatriche e alla pericolosità di Mohammed Barakat, e
la morte di suo figlio Federico, ucciso durante un incontro “protetto” la cui
prosecuzione avveniva sulla base di un parere specialistico che
negava la pericolosità del Barakat. Un parere specialistico che,
come detto e come ripeto, negava la validità di pareri medici e
psichiatrici ben precisi.
Che questo poi implichi la fattispecie dell'omicidio colposo per fatto commissivo, è un dato che deve essere accertato ovviamente dalla Magistratura.
Tutto questo
ha però una implicazione profonda.
A
mio avviso, incontri protetti del
genere,
quando cioè
uno dei genitori ipotizza la pericolosità dell'altro e che tale
pericolosità possa esprimersi in atti lesivi verso
il o i minori, andrebbero proseguiti solo sulla base di un parere
medico o psicologico stilato esplicitamente al momento, vale a dire
per la specifica occasione, e che garantisca il genitore sulla
assenza di pericolosità dell'altro genitore.
Da
questo punto di vista, gli operatori che si assumono la
responsabilità
di proseguire gli incontri dovrebbero dichiarare -e il genitore che
chiede la sospensione degli incontri esplicitamente chiederlo- se lo
fanno sulla base di una loro competenza specifica a diagnosticare
l'assenza o la presenza di pericolosità nei soggetti in
questione,
o se la prosecuzione degli incontri è totalmente svincolata da un
simile parere, e dovuta solo alla decisione di dar corso ad un
provvedimento giudiziario
per il quale sono stati incaricati dal giudice come suoi aiutanti.
A
mio avviso, in assenza di un tale parere o di una tale
documentazione, il genitore preoccupato della pericolosità
dell'altro può tranquillamente interrompere gli incontri protetti.
È
infatti evidente che -se è vero che la tutela fisica del minore non è garantita
da un accertamento specialistico e non se ne deve far carico (come da
sentenza di Cassazione) agli operatori dei "Servizi"- nondimeno essa non può venire per questo meno, lasciando cioè che il piccolo sia esposto alle violenze del genitore minacciante e violento perché non spetta alle istituzioni proteggerlo.
Tale
tutela torna dunque al genitore che con lui convive. In presenza di
reali e concreti pericoli dei quali è l'unico rimasto ad occuparsi,
in assenza cioè
di pareri esplicitamente presentati come diagnosi di non pericolosità
dell'altro genitore, e fermo restando tutti i profili relativi a
dichiarazioni non veritiere (che ovviamente non possono riguardare la
soggettività di stati d'animo), il genitore che convive col minore
può, se preoccupato per l'incolumità fisica del figlio a fronte di
specifici episodi che depongono per un comportamento pericoloso
dell'altro genitore, interrompere gli incontri protetti.
D'altra
parte, proprio
questo
sarebbe anche il parere del dr. Forno, il quale (secondo quanto dichiara la madre di Federico) così si sarebbe durante il processo in cui sono stati
assolti gli operatori dei "Servizi":
“Al
dibattimento” dichiara ancora
la madre di Federico “era presente anche la pg Roveda che
doveva motivare la sua richiesta di archiviazione. accanto a lei
c’era una persona che alla fine del dibattimento è stata coinvolta
dal giudice Tutinelli invitandola ad esprimere una sua riflessione.
Ho scoperto così che si trattava del sostituto procuratore aggiunto
Pietro Forno il quale ha sostanzialmente detto di ritenere buono
l’operato della pg Roveda e che i servizi sociali a suo dire
dovevano essere assolti.
Poi disse una cosa terribile, che non posso
dimenticare, perché ero dietro di lui; disse che Federico sarebbe
stato ucciso comunque, che ero io la responsabile della morte di
Federico perché non ero fuggita all’estero. ”
(fonte:
http://27esimaora.corriere.it/articolo/federico-che-in-quelle-stanzee-stato-lasciato-solo/).
È
evidente che se un PM della levatura del dr. Forno afferma (come la
signora Penati sostiene abbia fatto) che una madre con un problema
del
genere
deve poter scappare all'estero se teme per la vita del proprio
figlio, altrimenti è moralmente responsabile dell'omicidio del
figlio, siamo di fronte ad una indicazione non
solamente paradossale.
A
qualcuno potrebbe
essere anche sembrata,
come dire..., offensiva, ma in
questa
sede
non
è
questo
il punto.
Forse
il dr. Forno ha usato solo, come dire, una
metafora molto
sottolineata, ma sicuramente ha descritto molto
bene
la
linea di azione più legittima in casi del
genere.
Nessun
PM, dunque,
potrà obiettare, da questo
momento, se
una madre che si sente minacciata dall'ex partner
come si sentiva la signora Penati, prima di fuggire all'estero provi
inizalmente
a interrompere del tutto i contatti tra il figlio e l'altro
genitore,
iniziando a non portarlo più ad incontri che, lo esplicita la stessa
Cassazione, non
sono
protetti.
A
parere di chi scrive, e non
solo perché
lo ha indicato implicitamente il dr. Forno, la
madre (o comunque
il genitore)
che si ritrovi a temere per il proprio
figlio,
impegnato in “incontri protetti” con un genitore percepito come
violento e minacciante, ha
licenza di interrompere gli incontri e, nel caso, fuggire
pure
dall'Italia.
Ma,
per cominciare, può appunto disimpegnarsi dall'obbligo di portare io
figlio a vedere il genitore minacciante.
E voglio chiarire un punto: non lo sto affatto dicendo per scherzo o provocazione.
E' evidente che se le istituzioni non hanno il compito di tutelare il bambino dalla violenza dell'altro genitore, la Giustizia non può pretendere che il piccolo sia esposto a pericoli mortali perché il genitore deve ubbidire a un Decreto o una sentenza: spetta al genitore con cui il piccolo convive pensare alla sua tutela fisica.
D'altra
parte, proprio
secondo la Cassazione non sono gli
assistenti sociali che devono garantire tale protezione: i
“Servizi” devono pensare “unicamente
al sostegno educativo e psicologico del bambino”.
Resta
un ultimo punto, però, da discutere.
Nel
caso di Federico Barakat a
mio parere
sono stati lesi diritti umani fondamentali e inalienabili, e il nostro stato deve essere chiamato a risponderne alla Corte dei Diritti Umani di Strasburgo.
La
madre di Federico ha aperto una sottoscrizione per poter andare in
causa contro l'Italia a Strasburgo.
Dobbiamo
sostenerla tutti, questa
battaglia, perché è una battaglia di tutti.
Perché
in Federico ci sono tutti i bambini
“attenzionati” dai “Servizi”, e se le cose stanno come
stanno, e quell'”unicamente” funziona unicamente in
quell'”unicamente” descritto dalla Suprema Corte, allora dobbiamo
proteggere i nostri figli: perché Federico non ha avuto
scelta.
“Loro”
avevano deciso che suo padre non era né violento né pazzo, loro
avevano deciso che la madre era invece isterica e alienante, loro
avevano deciso che le sue paure erano irrazionali e irragionevoli.
E
lui è dovuto andare, sulla base di queste diagnosi, a morire.
Non
deve più accadere.
Sosteniamo
con sottoscrizioni e versamenti la battaglia della madre di Federico.
Andiamo
a Strasburgo a pretendere Giustizia.
Per
Federico. E per tutti gli altri bambini
inviati -con le loro paure, le loro terribili debolezze- a verificare
dove finisce quell'”unicamente”.
Cliccando qui si arriva al sito per le donazioni.
Mi raccomando. Donate: poco, ma donate comunque.
“In conclusione,” sostiene la Suprema Corte “il complessivo tenore dei provvedimenti giudiziari che scolpiscono, nel caso, il contenuto degli obblighi protettivi specificamente gravanti sugli operatori dell’Ente affidatario, evidenzia, in termini di certezza, che le finalità protettive erano orientate – unicamente – al sostegno educativo e psicologico del bambino, a fronte della esasperata conflittualità della coppia genitoriale”.
Qualcuno potrebbe fare molta ironia, sul “sostegno” effettivamente dato a questa piccola vittima della ferocia genitoriale, paterna e islamica (perché, dice la madre, questo è stato anche uno scontro fra culture).
E altrettanta ironia qualcuno potrebbe voler fare sulla “protezione” ricevuta negli incontri -appunto- “protetti”, incontri a cui i “Servizi” (un termine che in Italia assume sempre -chissà perché- significati sinistri, di operazioni deviate e con morti) a cui i "Servizi", dicevamo, lavoravano per “offrirgli una parte buona del padre”, come avevano scritto alla madre, che li implorava di sospendere gli incontri, terrorizzata dalle minacce del padre di Federico e illuminata, nella sua assoluta consapevolezza, dalla paura del bambino.
Sarebbe troppo semplice e troppo crudele chiedersi in che cosa è consistito allora questo loro “lavoro” per dargli tale "parte buona" del padre, di quel padre che lo ha ammazzato; troppo semplice e crudele domandarsi adesso cosa sarebbe accaduto se i "Servizi" avessero cercato di offrirgli invece “una parte cattiva” del padre: troppo semplice e troppo crudele, quanto -però- disperatamente inutile.
Perché la verità è che in una tragedia del genere, a cui le frasi assolutorie per chi doveva organizzare gli incontri protetti aggiungono una cruda luce di prosaico burocraticismo, l'ironia non arriva né a rischiarare alcunché, né, tanto meno, a lenire o dar sollievo.
Anzi, l'ironia diviene graffio profondo su ferite incurabili perché ti costringe a pensare che quel qualcosa che poteva davvero salvare Federico era a pochissimi centimetri da tutti.
Bastava poco. Pochissimo.
Bastava chiudere una porta.
Bastava solo che loro, i “Servizi”, ascoltassero non sé stessi, gonfi solo del proprio teorizzare il proprio teorizzare, adusi a pensarsi sempre come inviati del cielo e del destino, ma ascoltassero invece la mamma del bambino e il povero Federico.
Bastava, ma non è stato fatto.
E per questo credo che la morte di Federico possa oggi avere un senso. Un senso importante.
E servire a cambiare le cose.
Per provarci, partiamo proprio dall'assoluzione.
L'assoluzione degli operatori dei "Servizi" che avevano organizzato gli incontri protetti, arriva dunque a mettere una sorta di chiosa finale a tutto, ricordando che “il fatto non sussiste” perché -appunto- compito dei "Servizi" era quello di pensare “unicamente – al sostegno educativo e psicologico del bambino, a fronte della esasperata conflittualità della coppia genitoriale.”
Ovviamente, la madre del piccolo Federico non ci sta, e ha deciso di ricorrere alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Non può accettare che lo Stato italiano se la cavi in questo modo dopo che lei, grazie all'intervento di chi doveva assisterla e garantire a Federico un “ambito protetto”.
E per poter vedere lo stato italiano condannata per quanto accaduto a suo figlio, lancia una campagna di donazioni per ricavare quanto necessario a tale impegno.
È evidente che la sentenza in questione -Corte di Cassazione, sezione IV Penale, Sentenza 27 gennaio – 6 marzo 2015, n. 9855, Presidente Sirena – Relatore Montagni -spacca in quattro il capello della definizione letterale dell'incarico dei servizi sociali.
Qual è il punto da considerare?
A mio avviso non è quello della mancata tutela del piccolo nel corso degli incontri.
Il compito degli operatori -descritto, sia pur crudelmente, alla lettera- non era effettivamente quello di tutelare Federico nel senso della custodia e protezione fisica.
Da questo punto di vista la sentenza in questione si attiene rigorosamente alla natura dell'incarico affidato ai "Servizi".
Offrendo però -lo vedremo poi- spiragli logici di grande portata.
1) il padre di Federico non era pericoloso a sé e agli altri, e o comunque non era affetto da patologie che lo mettessero in condizioni di essere pericoloso a sé o agli altri;
2) i timori espressi dalla madre di Federico erano irrazionali e non corrispondevano a una visione adeguata e congrua della realtà, ma a una problematica psicopatologica che poteva essere inquadrata come una patologia fobico-ossessiva con atteggiamenti isterici, o come l'espressione di una sua volontà alienante;
3) i timori e le ripulse espresse da Federico (vedasi anche l'enuresi notturna, certificata dal suo pediatra) non erano atteggiamenti congrui alla realtà della sua relazione con il padre e del comportamento di questi, e che i suoi timori appartenevano alla dimensione della patologia e non a quella di un corretto esame di realtà;
4) le perizie e le certificazioni mediche che affermavano il contrario non erano da considerarsi attendibili al punto da sospendere gli incontri.
In altre parole, gli operatori dei "Servizi" hanno proceduto ad una attività diagnostica di natura psichiatrica e psicologica, e hanno operato in conseguenza di essa
Aggiungendo a ciò l'evidenza che il "sostegno educativo e psicologico" fornito dai "Servizi" si fonda sui contributi della psicologia clinica e della psichiatria, tanto che non a caso la direzione è affidata sempre a psicologi e gli operatori sono in gran parte psicologi.
Nel caso di Federico, poi, le decisioni erano appunto prese dalla Responsabile, che è una psicologa, e che ha operato evidentemente sulla base delle proprie conoscenze cliniche.
Da questo punto di vista, gli operatori dei "Servizi" hanno indiscutibilmente espresso un classico parere diagnostico (anche piuttosto articolato) e ne hanno fatto discendere importanti decisioni a livello giudiziario e a livello amministrativo.
Tra l'altro negando appunto la validità di pareri medici presentati specificatamente dalla madre di Federico a sostegno della sua richiesta di interrompere gli incontri.
Ad esempio, e lo cito come uno fra i tanti, veniva negata che l'enuresi notturna diagnosticata in Federico dal suo pediatra avesse un nesso causale univoco ed accertato con la oggettiva traumaticità degli incontri con il padre.
Se tale nesso fosse stato invece accertato, era evidente che bisognava garantire che le paure del piccolo, causate da una situazione oggettivamente traumatica e non da fantasie indotte da un genitore pretesamente alienante, dovevano avere, come risposta da parte dei “Servizi”, la cessazione dell'evento traumatico, cioè degli incontri.
Lo stesso dicasi poi per le perizie specialistiche presentate dalla madre di Federico.
Negarne la validità è stato, a mio avviso, un atto diagnostico completo in ogni senso.
In realtà, il problema in esame non è affatto infrequente. Non è affatto infrequente, cioè, che una diagnosi psichiatrica, un parere sulla presenza e l'evoluzione di una determinata psicopatologia in uno specifico soggetto, e sulla capacità di intendere e o volere di questi, vengano emessi da specialisti -o da chi dovrebbe esser tale- per garantire l'adeguatezza e la legittimità di particolari procedure amministrative o di eventi di natura privata.
Uno degli esempi che si può fare è quello del medico psichiatra che con la sua certificazione rende possibile alla autorità preposta la concessione di un porto d'armi ad un determinato soggetto:
Il paragone con quanto accaduto a Federico Barakat è evidente: sebbene il certificato medico non fosse stato scritto (e forse non può identificarsi nemmeno la stesura di un certificato), è -come si suol dire- in re ipsa il dato che gli incontri sono continuati perché è stato emesso un parere vincolante sulla pericolosità del soggetto, parere questo riservato esclusivamente agli esercenti la professione medica e anche, a quanto ritengo, di psicologo.
Un altro esempio è quello del notaio che dovendo vendere l'appartamento di un anziano, deve premunirsi di un parere medico sulla capacità di intendere e o volere del soggetto in quanto in caso di comprovata incapacità del soggetto, l'annullamento dell'atto verrebbe a lui addebitato.
Gli operatori che hanno gestito il caso di Federico Barakat non sono dunque colpevoli per essersi allontanati dalla stanza in cui si svolgeva l'incontro tra Federico ed il padre.
Il vero nodo della questione, a mio avviso, è nel passaggio precedente, vale a dire nella dichiarazione di non pericolosità da loro emessa a più riprese e in più occasioni circa il comportamento del padre di Federico, nell'attività diagnostica posta in essere riguardo le eventuali patologie di Mohammed Barakat, nella previsione che i comportamenti in lui riscontrati, non erano pertinenti a stati patologici in grado di portarlo ad eventi lesivi.
Lo stesso dicasi per quanto da loro affermato sulle condizioni psichiche della madre e di Federico, che a loro parere non erano in grado di valutare adeguatamente il comportamento del padre di Federico.
Da questo punto di vista esiste -a mio avviso- una falla logica nella sentenza di Cassazione, perché vero è che il compito degli operatori dei "Servizi" era quello di badare “unicamente – al sostegno educativo e psicologico del bambino”, ma è altrettanto vero che la prosecuzione di questo piano di sostegno è stata stabilita, rispetto alle richieste della madre del bambino che esponeva una gravissima situazione di pericolosità dell'ex partner rispetto a lei e al figlio, sulla base di pareri diagnostici ben precisi che hanno escluso la pericolosità del padre e affermato che di patologico c'era il comportamento della madre.
Bisogna allora chiedersi se questi operatori dei "Servizi" hanno sbagliato diagnosi, e se erano autorizzati a porre una diagnosi.
Allora:
Da questo punto di vista, la “prevedibilità” di cui parla la sentenza di Cassazione che ha mandato assolti gli operatori dei "Servizi" (“la regola cautelare violata deve essere necessariamente diretta a prevenire anche il rischio dell'atto doloso del terzo e che quest'ultimo deve risultare prevedibile per l'agente che risponde a titolo di colpa” dice la massima della sentenza in questione), va inquadrata non con riguardo alla modalità di svolgimento dell'incontro in cui è avvenuto l'evento lesivo, ma alla luce del processo diagnostico che ha consentito la prosecuzione degli incontri negando validità ad altri pareri specialistici, e posto di fatto una diagnosi di madre alienante a carico della signora Penati:
Che questo poi implichi la fattispecie dell'omicidio colposo per fatto commissivo, è un dato che deve essere accertato ovviamente dalla Magistratura.
Tutto questo ha però una implicazione profonda.
A mio avviso, incontri protetti del genere, quando cioè uno dei genitori ipotizza la pericolosità dell'altro e che tale pericolosità possa esprimersi in atti lesivi verso il o i minori, andrebbero proseguiti solo sulla base di un parere medico o psicologico stilato esplicitamente al momento, vale a dire per la specifica occasione, e che garantisca il genitore sulla assenza di pericolosità dell'altro genitore.
Da questo punto di vista, gli operatori che si assumono la responsabilità di proseguire gli incontri dovrebbero dichiarare -e il genitore che chiede la sospensione degli incontri esplicitamente chiederlo- se lo fanno sulla base di una loro competenza specifica a diagnosticare l'assenza o la presenza di pericolosità nei soggetti in questione, o se la prosecuzione degli incontri è totalmente svincolata da un simile parere, e dovuta solo alla decisione di dar corso ad un provvedimento giudiziario per il quale sono stati incaricati dal giudice come suoi aiutanti.
A mio avviso, in assenza di un tale parere o di una tale documentazione, il genitore preoccupato della pericolosità dell'altro può tranquillamente interrompere gli incontri protetti.
È infatti evidente che -se è vero che la tutela fisica del minore non è garantita da un accertamento specialistico e non se ne deve far carico (come da sentenza di Cassazione) agli operatori dei "Servizi"- nondimeno essa non può venire per questo meno, lasciando cioè che il piccolo sia esposto alle violenze del genitore minacciante e violento perché non spetta alle istituzioni proteggerlo.
Tale tutela torna dunque al genitore che con lui convive. In presenza di reali e concreti pericoli dei quali è l'unico rimasto ad occuparsi, in assenza cioè di pareri esplicitamente presentati come diagnosi di non pericolosità dell'altro genitore, e fermo restando tutti i profili relativi a dichiarazioni non veritiere (che ovviamente non possono riguardare la soggettività di stati d'animo), il genitore che convive col minore può, se preoccupato per l'incolumità fisica del figlio a fronte di specifici episodi che depongono per un comportamento pericoloso dell'altro genitore, interrompere gli incontri protetti.
D'altra parte, proprio questo sarebbe anche il parere del dr. Forno, il quale (secondo quanto dichiara la madre di Federico) così si sarebbe durante il processo in cui sono stati assolti gli operatori dei "Servizi":
“Al dibattimento” dichiara ancora la madre di Federico “era presente anche la pg Roveda che doveva motivare la sua richiesta di archiviazione. accanto a lei c’era una persona che alla fine del dibattimento è stata coinvolta dal giudice Tutinelli invitandola ad esprimere una sua riflessione. Ho scoperto così che si trattava del sostituto procuratore aggiunto Pietro Forno il quale ha sostanzialmente detto di ritenere buono l’operato della pg Roveda e che i servizi sociali a suo dire dovevano essere assolti.
Poi disse una cosa terribile, che non posso dimenticare, perché ero dietro di lui; disse che Federico sarebbe stato ucciso comunque, che ero io la responsabile della morte di Federico perché non ero fuggita all’estero. ”
È evidente che se un PM della levatura del dr. Forno afferma (come la signora Penati sostiene abbia fatto) che una madre con un problema del genere deve poter scappare all'estero se teme per la vita del proprio figlio, altrimenti è moralmente responsabile dell'omicidio del figlio, siamo di fronte ad una indicazione non solamente paradossale.
A qualcuno potrebbe essere anche sembrata, come dire..., offensiva, ma in questa sede non è questo il punto.
Forse il dr. Forno ha usato solo, come dire, una metafora molto sottolineata, ma sicuramente ha descritto molto bene la linea di azione più legittima in casi del genere.
Nessun PM, dunque, potrà obiettare, da questo momento, se una madre che si sente minacciata dall'ex partner come si sentiva la signora Penati, prima di fuggire all'estero provi inizalmente a interrompere del tutto i contatti tra il figlio e l'altro genitore, iniziando a non portarlo più ad incontri che, lo esplicita la stessa Cassazione, non sono protetti.
A parere di chi scrive, e non solo perché lo ha indicato implicitamente il dr. Forno, la madre (o comunque il genitore) che si ritrovi a temere per il proprio figlio, impegnato in “incontri protetti” con un genitore percepito come violento e minacciante, ha licenza di interrompere gli incontri e, nel caso, fuggire pure dall'Italia.
Ma, per cominciare, può appunto disimpegnarsi dall'obbligo di portare io figlio a vedere il genitore minacciante.
E voglio chiarire un punto: non lo sto affatto dicendo per scherzo o provocazione.
E' evidente che se le istituzioni non hanno il compito di tutelare il bambino dalla violenza dell'altro genitore, la Giustizia non può pretendere che il piccolo sia esposto a pericoli mortali perché il genitore deve ubbidire a un Decreto o una sentenza: spetta al genitore con cui il piccolo convive pensare alla sua tutela fisica.
D'altra parte, proprio secondo la Cassazione non sono gli assistenti sociali che devono garantire tale protezione: i “Servizi” devono pensare “unicamente al sostegno educativo e psicologico del bambino”.
Resta un ultimo punto, però, da discutere.
Nel caso di Federico Barakat a mio parere sono stati lesi diritti umani fondamentali e inalienabili, e il nostro stato deve essere chiamato a risponderne alla Corte dei Diritti Umani di Strasburgo.
La madre di Federico ha aperto una sottoscrizione per poter andare in causa contro l'Italia a Strasburgo.
Sosteniamo con sottoscrizioni e versamenti la battaglia della madre di Federico.
Andiamo a Strasburgo a pretendere Giustizia.
Per Federico. E per tutti gli altri bambini inviati -con le loro paure, le loro terribili debolezze- a verificare dove finisce quell'”unicamente”.
Cliccando qui si arriva al sito per le donazioni.
Mi raccomando. Donate: poco, ma donate comunque.