L'articolo
che segue illustra le strategie
cliniche psicoterapiche
che utilizziamo per tentare il recupero
delle relazioni genitoriali amputate
(*) in caso di cosiddetta “PAS”.
Questo articolo è
composto da alcuni capitoli di un articolo pubblicato da pochissimi
giorni su Psychomedia.it, nell'area “Disagio
Familiare Separazione e Affido dei Minori”,
coordinata da Gaetano Giordano.
L'articolo
pubblicato su Psychomedia si intitola:
Le
patologie degli
insiemi familiari da
separazione: nuovi
spunti clinici e
psicosociologici in
tema di Mobbing Genitoriale e
recupero delle relazioni genitoriali amputate (*).
E'
stato scritto dal dr. Gaetano GIORDANO, con la collaborazione
dell'avvocato Massimiliano Fiorin per quanto riguarda i capitoli
dedicati agli aspetti giuridici del problema, e la collaborazione dei
dottori Benedetta Rinaldi e Marco Muffolini per quanto riguarda
l'articolo sul mito di Ulisse come chiave per il recupero
delle relazioni paterne.
E'
recuperabile a questo
indirizzo:
Nel
testo che segue sono stati lasciati i numeri di identificazione dei
capitoli e dei paragrafi utilizzati nell'articolo completo.
(*)Il concetto di “amputazione genitoriale” -espressione straordinariamente efficace per definire cosa accade veramente ad un bambino “alienato” dal suo genitore, è stato per primo utilizzato da G. Benedetti, che così si esprime:
“Sindrome
da alienazione genitoriale: una patologia della famiglia separata.
Io preferisco chiamarla “di amputazione genitoriale”, perchè dà meglio l’idea di che cosa sia, mi sembra. Si sta discutendo fra gli estensori della prossima edizione del DSM, se riconoscere ‘ufficialmente’ questa sindrome fra i disturbi mentali, di cui il DSM appunto si occupa ...” (Benedetti G. 1911 Benedetti, G., (2012) Sindrome da alienazione genitoriale: una patologia della famiglia separata,
http://neuropsic.altervista.org/drupal/?q=node/98
Mobbing Genitoriale: ipotesi di interventi psicoterapici per il recupero delle relazioni genitoriali amputate in corso di mobbing genitoriale
Premessa Questo “articolo”, la cui lunghezza in realtà farebbe pensare di più ad un libro, nasce dalle esperienze del Centro Studi Separazioni e Affido Minori, di Roma. Il Centro Studi Separazioni e Affido Minori1 si occupa da oltre una trentina di anni -negli anni '80 con altro nome- delle problematiche legate alla conflittualità nelle separazioni coniugali e ai problemi da questa emergenti: mobbing genitoriale e alienazione parentale. Nel 1984 chi lo ha fondato e lo dirigeva, vale a dire l'autore di questo articolo, ha utilizzato per primo in Italia le tecniche della Mediazione Familiare, seguito ad anni di distanza da un Centro di Ancona. Nel corso di questi trenta e più anni, sono stati sviluppati modelli di intervento sia in campo psicoterapico (chi vuole riconoscersi negli orientamenti e nei legami col nostro Centro Studi, deve avere di necessità una preparazione psicoterapica di orientamento analitico, con una analisi personale molto importante alle spalle), sia in campo psicologico-forense, producendo alla fine modelli di intervento, e di lettura del problema molto personali. Come si leggerà in questo articolo, il Centro ha sviluppato orientamenti specifici nella gestione delle “patologie da transazione mobbizzante in campo familiare”, e un lessico nuovo, sicuramente apparentemente pretenzioso e autoreferenziale alle esperienze dei professionisti che le portavano avanti, e che -coerentemente alle prospettive comuni- nasce sostanzialmente per orientarsi nel loro stesso orientarci nel loro campo di operazioni. Il loop linguistico con cui viene descritto tutto ciò, esprime dunque volutamente la prospettiva epistemologica alla quale ci si riferisce allorché si parla di “conoscenza umana”. Gli autori di riferimento sono, da questo punto di vista, Maturana, Varela, Bateson, e Morin. Al momento, si riconoscono nelle linee guida dello stesso Centro altri professionisti, alcuni dei quali partecipano con costanza ad iniziative comuni, e sono la dr.ssa Benedetta Rinaldi ed il dr. Marco Muffolini Dottore in scienze e tecniche psicologiche, nonché la dottoressa Barbara Rossi, che opera a Milano (e Reggio Emilia). Questo articolo vuole essere la presentazione di un punto di partenza raggiunto dopo trenta anni di ricerche e studi sul campo, e che vuole qualificarsi come il frutto di una ricerca personale condotta sempre con scienza, coscienza, ricerca di etica nell'agire e nel proporre.
4.1.0
Premessa: dalla coppia unita all'“Insieme
Bi-Genitoriale da Separazione” a
transazione mobbizzante.
Come
detto nei capitoli precedenti, la separazione per motivi di conflitto
di una coppia con prole, determina una serie di trasformazioni che
possono portare la coppia a divenire quello che abbiamo definito
"sistema di-familiare post-separativo" a transazione
mobbizzante.
Premettiamo
-a scanso di equivoci- che già di per se la coppia unita deve essere
percorsa da problematiche (conflittive o meno) tali da creare le
premesse per un esplodere della conflittualità separativa nei
momenti successivi alla scissione in due nuclei abitativi (scissione
seguita a breve scadenza, di solito, da una rapida trasformazione
delle regole e delle modalità comunicative della coppia).
Molto
probabilmente,
le dinamiche
collusive presenti nella coppia precedentemente alla separazione
avranno una grande importanza proprio
nel generare il contesto alienante ma proprio per questo devono
essere
trattate a parte.
Il
primo passaggio
verso il nucleo a transazione mobbizzante è dunque
la separazione della coppia in due nuclei abitativi diversi, il che
implica un rapido passaggio da regole in qualche
modo condivise ad organizzazioni di vita e quotidiane già più
divise.
In
questa
fase, noi descriviamo il formarsi dell'“Insieme
Bi-Genitoriale da Separazione”,
termine con il quale descriviamo il legame -per certi versi
paradossale e ricco di tensioni a rischio- che permane fra i due
genitori separati, ormai residenti in abitazioni diverse, e dalla
prole che li unisce (tendendo però a separarli in virtù delle
opposte modalità con cui si esplica da adesso l'accudimento
genitoriale).
Come
detto precedentemente, ribadiamo che questo
utilizzo di una nuova terminologia è funzionale a descrivere
situazioni
delle quali occorre cogliere la natura fondamentalmente diversa
rispetto a quelle
della famiglia normounita.
Vero
è che
la famiglia a genitori coabitanti può essere
percorsa, più di quella
a genitori non
coabitanti, da tensioni e conflittualità
psicopatogenetiche, ma è altrettanto vero che la famiglia separata,
fondata ormai
su due nuclei genitoriali divise, vede per l'esercizio della
genitorialità dei due, regole e prassi talmente antitetiche da
qualificarsi ormai
con fisionomia ben diversa dalla famiglia
a genitori non
coabitanti. Di
fatto,
sarà proprio
l'antiteticità delle modalità di accudimento, la differenza di
coabitazione con la prole in termini di tempo, a generare le
possibili tensioni tra i due ex partner.
Si
formano, con l'“Insieme
Bi-Genitoriale da Separazione”,
i due nuclei che la compongono: il “polo
familiare monogenitoriale”
e il “polo
genitoriale de-figliato”.
E'
in questo
momento, di
fatto
una fase del primo passo del possibile formarsi di un nucleo
di-familiare a transazione
mobbizzante,
che emerge la “Sindrome
del Nido Clonato”,
nella quale
entrambi i genitori tendono a vedere nell'altro un intruso. Il
genitore
che resta a coabitare con il figlio, tende infatti
a sperimentare una prassi quotidiana di accudimento e impegno verso
il figlio che gli fa percepire “l'altro”
appunto come “un
altro”
rispetto ai problemi
della genitorialità; il genitore
rimasto a vivere senza prole, invece,
sperimenta un vissuto di spoliazione della propria
genitorialità, di cui tende a far carico all'altro.
I
legami e le relazioni che tenderanno a svilupparsi da questo
momento in poi saranno tendenzialmente paradossali e
disfunzionali, quando non francamente patologiche, dal momento che i
due ex partner saranno uniti proprio
da ciò che li divide: l'accudimento della prole, che è un modello
comportamentale istintualmente molto potente e in grado di spezzare
l'importanza dei codici sociali acquisiti (come, ad esempio, quello
della giustizia).
In
sintesi, è come se si formassero due nidi, due nidi ciascuno clone
uno dell'altro, destinati però a uno stesso uccellino.
Il
secondo
passaggio
è l'entrata in scena del procedimento
giudiziario
come chiave di soluzione
della conflittualità
genitoriale.
Da questo
momento
inizieranno i comportamenti mobbizzanti
Il
procedimento giudiziario, che tende a tutelare i diritti dei singoli
-dell'uno dunque rispetto all'altro, e non
dell'uno insieme
all'altro- e dunque
non
tutela la relazione in
quanto
tale,
opera scomponendo l'esercizio della genitorialità, e generando una
situazione
di conflittualità
ricorsiva, nella quale i due nuclei genitoriali si combattono perché
devono:
a)
dimostrare di essere
ognuno genitore “più”
adeguato dell'altro;
b)
garantirsi la gestione e l'accudimento della prole, da cui “l'altro”
sembra escluderli.
Ognuno
dei due genitori tenderà così
ad identificare sé stesso come il genitore del minore, e
identificherà i propri
diritti con l'interesse del figlio. La logica della coppia diventa
quella della subottimizzazione: entrambi cercheranno il proprio
vantaggio a scapito del vantaggio dell'insieme.
Il
procedimento
giudiziario,
sezionando l'accudimento genitoriale in modalità predefinite e
aliene da un accudimento globale, porterà al "Family
Chopping", cioè
all'amputazione dei legami familiari in quanto tali,
e/o alla loro segmentazione in momenti assolutamente discontinui tra
loro. Il minore vivrà cioè
una vita a compartimenti stagni e non
comunicanti tra loro.
E'
in questa
fase che l'“Insieme
Bi-Genitoriale da Separazione”
diventa a transazione mobbizzante.
Da
questo
momento in poi si sviluppa un contesto alienante,
dal momento che ognuno dei due
genitori considererà sempre più l'altro
come un intruso e tenderà ad espellerlo dalla vita del figlio.
Quanto
poi questo
contesto
alienante
si trasformerà in una Alienazione Parentale, è impredicibile.
Quanto
poi si debba distinguere tra PAS -cioè Sindrome di Alienazione
Genitoriale- ed “Alienazione Parentale”, è un argomento ancora
dibattuto.
Per
quanto riguarda invece le conseguenze sui minori di un contesto a
transazione mobbizzante, rimandiamo
agli studi appositi, sottolineando però la pericolosità della
situazione e sottolineando ancora una volta come l'utilizzo del
Diritto nella gestione della conflittualità
genitoriale
non privilegi affatto la tutela del singolo -e nello specifico la
garanzia di adeguate condizioni di crescita per il minore- ma solo la
continua e ricorsiva (quanto anche, in molte occasioni, ritorsiva)
applicazione di sé stesso.
Bisogna
infatti sottolineare che non vi è mai un momento nel quale
l'esercizio della giustizia in ambito familiare si arrenda per
lasciare il posto ad altre soluzioni: anche la stessa “Mediazione”
al momento viene utilizzata come interna ad un procedimento
giudiziario, il che lascia sempre aperto lo spazio ad un suo utilizzo
strumentale, e finalizzato ad un mero risultato processuale nei
termini di adesso.
Per
quanto comunque riguarda la PAS, daremo qui di seguito un veloce
excursus, annotando sia quella che viene considerata la
“sintomatologia” principale, sia occupandoci delle sempre
più frequenti polemiche che si agitano attorno a questo vero e
proprio fantasma concettuale ed operativo.
“Sindrome
di Alienazione Genitoriale” e “Alienazione Parentale” sono
termini ben noti a tutti coloro che si occupano di conflittualità
genitoriale nel corso di procedimenti giudiziari.
Per
quanto riguarda la PAS, possiamo dire, sinteticamente, come essa si
manifesti con:
-
il rifiuto di uno dei genitori da parte di un minore coinvolto in un
procedimento giudiziario di separazione.
Tale
rifiuto deve essere basato:
-
non su oggettivi problemi di comportamenti da parte del genitore;
-
su
accuse relative o a comportamenti mai tenuti, o a comportamenti che
usualmente
sono considerate risibili o comunque non idonei a legittimare il
rifiuto di avere contatti con un genitore.
Colliva,
al proposito, (Colliva, 2005) riporta la necessità di poter definire
la sintomatologia della PAS solo dopo aver definito cosa non sia la
PAS. E la PAS non è:
- “l’alienazione genitoriale prodotta da una “realtà reale” di mancanze, trascuratezze o violenze del genitore alienato”;
- “una patologia del genitore alienante, ma una patologia instillata nel bambino”;
- “sinonimo di accuse per violenze o abusi rivolte ad un genitore”.
Eccone
invece una definizione in positivo:
"La
sindrome di Alienazione Parentale (PAS), è un disturbo che insorge
principalmente nel contesto delle controversie per la custodia
dei figli. La sua manifestazione principale è la campagna di
denigrazione rivolta contro un genitore: una campagna che non ha
giustificazioni. Essa è il risultato della combinazione di una
programmazione (lavaggio del cervello) effettuata dal genitore
indottrinante e del contributo dato dal bambino in proprio, alla
denigrazione del genitore bersaglio. In presenza di reali abusi o
trascuratezza dei genitori, l'ostilità del bambino può essere
giustificata e, di conseguenza, la Sindrome di Alienazione Parentale,
come spiegazione dell'ostilità del bambino, non è applicabile."
(Gardner, 1985, p.1)
In
questo disturbo, un genitore (solitamente indicato come alienatore,
genitore alienante o genitore origine della PAS), attiva un programma
di denigrazione contro l’altro (generalmente indicato come genitore
alienato o genitore bersaglio), allo scopo di ottenere che il figlio
si rifiuti di frequentare l’altro genitore. Quello che differenzia
la PAS da un semplice “lavaggio del cervello”, attuato da un
genitore sul figlio, è il fatto che il bambino diventa egli stesso
protagonista della campagna di denigrazione ed è proprio questa
combinazione di comportamenti che legittima una diagnosi di PAS. E’
importante sottolineare che la denigrazione del figlio non deve
essere imputata ad un reale comportamento negligente del genitore
bersaglio. Si può dunque parlare di Sindrome da Alienazione
Parentale solo quando il figlio attua un comportamento alienante
assolutamente ingiustificato, mentre in presenza di reali abusi o
trascuratezza da parte di un genitore non si può parlare di PAS.
Gardner affronta anche lo studio di quelle situazioni in cui, dopo la
separazione, il comportamento dei figli cambia negativamente e
ingiustificatamente nei confronti del genitore non affidatario, il
quale, nella maggioranza dei casi, come la casistica dimostra,
risulta essere il padre.
Egli
individua gli otto sintomi primari che caratterizzano la PAS (1992):
1.
campagna di denigrazione;
2.
razionalizzazioni deboli, superficiali e assurde per giustificare il
biasimo;
3.
mancanza di ambivalenza;
4.
il fenomeno del “pensatore indipendente”;
5.appoggio
automatico al genitore alienante nel conflitto genitoriale;
6.
assenza di senso di colpa per la crudeltà e l’insensibilità verso
il genitore alienato;
7.
utilizzo di scenari presi a prestito;
8.
estensione dell’ostilità alla famiglia allargata ed agli amici del
genitore alienato.
A
queste variabili Gardner ha di seguito aggiunto (1998a, 1998b, 2001a,
2001b) altri quattro criteri o fattori che consentono di indagare in
modo specifico la relazione che intercorre tra il minore e i due
genitori, per arrivare ad una corretta valutazione della sindrome.
Verranno quindi anche valutate:
a)
Le difficoltà del minore nel periodo di transizione da un genitore
all'altro.
b)
Il comportamento del minore durante la permanenza a casa del genitore
alienato.
c)
Il legame del minore con il genitore alienante.
d)
Il legame del minore con il genitore alienato prima della separazione
o, in ogni caso, dell'alienazione.
Lo
studioso individua anche tre livelli di gravità di questo disturbo:
1.
LIEVE (mild)
2.
MEDIO (moderate)
3.
GRAVE (severe)” (Cavedon, 2009)
5.1.
La
gestione
dei
contesti a transazione mobbizzante: l'intervento
del Tribunale o di suoi incaricati
Per
quanto riguarda i tentativi di correzione dei disturbi della
frequentazione genitore-figli, vi sono due categorie di strumenti di
solito utilizzati (o indicati) per farvi fronte.
La
categoria di interventi più comune, più percepita come “ovvia”
e “giusta” (ma non necessariamente percepita come “adeguata”,
riconoscendone praticamente tutti la sostanziale inutilità) è
quella effettuata tramite ricorso al giudice. A questi di norma viene
chiesto, in caso di impedimento alle frequentazioni, o una modifica
in toto delle modalità di affido (da condiviso ad esclusivo), o una
modifica delle modalità di frequentazione fra il genitore mobbizzato
ed il figlio.
Una
terza possibilità è la richiesta di autorizzare una esecuzione
coattiva delle statuizioni giudiziarie, vale a dire la richiesta di
far eseguire con intervento della Forza Pubblica quanto stabilito in
merito ai rapporti genitore-figli. Usualmente questa modalità è
poco utilizzata, perché ritenuta di fatto “ideologicamente”
scorretta, e lesiva della stabilità psicofisica del minore (come
recenti fatti di cronaca, e l'eco che hanno avuto, dimostrano).
Anche
questo implica di fatto un paradosso illuminante, che denuncia tutta
la confusione che si agita nella nostra cultura in tema i rapporti
genitori-figli. Il punto è, infatti, che si postula una gestione
giudiziaria delle conflittualità genitoriali in tema di accudimento
dei figli, e poi si trova però scandaloso e inaccettabile una
gestione giudiziaria dei dispositivi giudiziari. La problematica si
presenta ancor più complicata se si tiene presente che nessuno trova
scandaloso che i figli di famiglie disagiate (e magari definite tali
per soli motivi economici) ma non necessariamente conflittuali, siano
sottratti agli stessi con grande spiegamento di forze di polizia,
allorché cioè devono esser affidati a case famiglia su ordine del
Tribunale dei Minori. In questi casi l'impiego di Polizia, Vigili
Urbani, Assistenti Sociali che eseguono il “prelievo” della prole
non desta assolutamente lo scandalo che desta invece la vicenda del
bambino sottratto alla mamma (o al padre) che non lo fa vedere
all'altro genitore.
A
prescinder comunque da ciò, e ritornando al tema delle soluzioni
tentate per ripristinare la continuità relazionale genitore-figli, è
comunque evidente che le modalità attuate tramite richiesta al
Giudice di intervenire con statuizioni più efficaci, discendono
entrambi dalla concezione secondo cui il disturbo della
frequentazione genitore-figli è un problema essenzialmente
giudiziario da risolvere con metodiche specificamente giudiziarie
(anche se la modifica dell'affido e/o delle frequentazioni
necessariamente si fonda su una prospettiva psicologica, utilizzata
però in modo strumentale alla affermazione della forza del Diritto).
Al
di fuori di questa categoria di interventi (che potremmo definire
categorie di richiesta di esasperazione dell'intervento giudiziario),
ve ne è un'altra, che potremmo definire “extragiudiziale”, entro
la quale, più che altro per brevità espositiva, abbiamo incluso due
(o tre, a seconda dei punti di vista) modalità di intervento
attualmente praticate.
In
realtà, anche queste modalità sono disposte o indicate dal Giudice,
almeno nella stragrande maggioranze dei casi e questo a conferma del
fatto che nella nostra cultura il conflitto genitoriale per la
gestione della prole è percepito come un problema di “giustizia”
e non di “salute” (pur essendo tutti consapevoli che gli effetti
più tragici sono a livello psicofisico, e che a determinare tali
conflitti è comunque un problema psichico, che si concretizza in una
errata percezione dei limiti del proprio ruolo genitoriale).
In
questo paragrafo, intendiamo dunque parlare di queste due (o tre)
modalità di intervento.
La
prima, quella più invocato -e più evocato- per porre fine a
contesti di così grave conflittualità genitoriale è la Mediazione
del Conflitto.
In
Italia, il primo in assoluto esperimento di Mediazione del Conflitto,
in caso di grave conflittualità genitoriale, fu effettuato nel 1986
da uno degli autori di questo articolo, il dr. Gaetano Giordano,
presso l'Istituto di Psicologia Analitica (Riza Psicosomatica,
pubblicità anno 1986), e venne denominato “Divorce Counseling”,
mancando all'epoca una esatta terminologia italiana e mutuando il
termine dalle esperienze americane di Coogler (Coogler, 1978),
(Giordano, 1985),
Col
tempo, però, fu chiaro che la mediazione poteva essere uno strumento
privilegiato solo nel caso in cui entrambi i coniugi, superando
almeno parzialmente gli “acting out” giudiziari (Salluzzo, 2004)
legati all'esprimersi delle reciproche conflittualità, accettavano
l'ipotesi di poter andare d'accordo.
Diveniva
così esiguo il numero di coloro che riuscivano a praticare con
profitto, e specie in assenza di disposizioni del Tribunale
(all'epoca del tutto sconosciute quanto impensabili), una
“Mediazione” accettabile e non mediata dalla ricattatorietà che
puntualmente si esprime allorché uno dei due coniugi diviene
consapevole che in caso di interruzione della mediazione, con ogni
probabilità uscirà vincitore dal reinstauratosi conflitto
giudiziario, prospettiva che molto più frequentemente vale appunto
per le madri.
A
parere di chi scrive, tali obiezioni sono ancora in gran parte
valide, non essendo mutato di molto lo scenario nel quale la
Mediazione viene ad operare e, soprattutto, non essendo mutato di
molto il contesto di gestione -giudiziaria e sociale entro il quale
la Mediazione si colloca e viene utilizzata.
In
realtà, come detto precedentemente, il vero problema è che
l'intervento della giustizia non solo rischia di essere sempre molto
tardivo, ma – proprio in virtù della natura conflittiva del
percorso giudiziario – rischia di non rendere mai premiante il
ricorso a percorsi a-conflittivi, come è la Mediazione, la quale
individua come propria strategia la collaborazione (e non il
conflitto), e come obbiettivo la condivisione (e non la supremazia),
proponendo appunto come detto un gioco a somma diversa da zero, nel
quale cioè i vantaggi dell'uno non portino a zero quelli dell'altro
ma facciano parte di una, diciamo così, contabilità condivisa.
Vista
dunque con gli occhi di chi “vuole vincere la causa” perché sa
che se vince ottiene molti più benefici di quelli che avrebbe se
condividesse con l'altro fiducia e responsabilità (ecco il “dilemma
dei prigionieri”) abbiamo che nella maggior parte dei casi la
Mediazione viene percepita come un percorso inutile e di perdita,
ovviamente in una logica nella quale prevale una prospettiva per così
dire di “subottimizzazione”, vale a dire una logica in base alla
quale il genitore che si augura di uscir “vincitore” dal
conflitto con l'altro coniuge, identifica il proprio benessere con
quello del figlio.
In
sintesi, la Mediazione del Conflitto difficilmente riesce ad
accreditarsi come strategia utile alla coppia in conflitto in quanto
è iscritta in un sistema che distrugge l'utilità.
Gli
altri interventi di recupero della genitorialità sono espletati di
norma dai Servizi Sociali, dalle ASL o da istituzioni analoghe e
sempre su incarico del Tribunale, anche qui a riprova di come il
Diritto sia in questo momento un sistema autoreferenziale che ingloba
ogni soluzione relativa alle problematiche di conflittualità
genitoriale.
Gli
interventi di cui stiamo parlando, comunque, possono essere di pura
osservazione e valutazione -in assenza cioè dei tentativi di
recuperare situazioni patologiche- o anche contenere l'indicazione
di un intervento volto al recupero della situazione.
Nel
primo caso, il Giudice dà mandato di “monitorare” la situazione
per riferirgli, onde disponga gli interventi che ritiene più
adeguati; tra queste richieste, vi può essere quella rivolta -in
genere al Servizio Sociale, o anche al consultorio di zona, o alla
ASL- di “valutare l'adeguatezza genitoriale dei due ex coniugi”,
ovvero di indagare quali sono i rapporti tra genitori e figli.
Usualmente, non è previsto all'espletamento di questi incarichi
partecipino i consulenti delle parti: in realtà si tratta sempre di
forme di consulenza tecnica che il Giudice, agendo nell'ambito della
volontaria giurisdizione, può richiedere vengano espletate da un suo
consulente di fiducia.
Ciò
implica un dato però fondamentale: questo tipo di consulenza,
considerato meno impegnativo e fondante di una CTU vera e propria, in
quanto svolta in assenza di professionisti appositamente designati,
si qualifica in realtà come uno strumento assolutamente delicato e,
a nostro avviso, “pericoloso”: non raramente lascia perplesse e
scontente le parti, e altrettanto non raramente incide pesantemente
(e senza che le parti possano dire la loro) sulla situazione della
coppia: l'assenza di consulenti di parte rende di fatto l'operatore
che interviene una sorta di “deus ex machina” che interviene in
assenza di qualsiasi contraddittorio e con poteri quanto mai ampi.
Fermo
restando infatti che il giudicante, almeno formalmente, si riserva di
valutare il contenuto di tali consulenze (rimanendo sempre “peritus
peritorum”), vero è che nella stragrande maggioranza dei casi il
Giudice sembra recepire abbastanza passivamente quanto indicato dai
suoi consulenti, e questo senza che le parti possano dunque
intervenire ad esprimere i propri punti di vista.
Alcuni
giudici, in questi casi, negano anche alle parti la possibilità di
depositare le proprie osservazioni su quanto opinato dagli operatori
incaricati, e questo di fatto crea, il più delle volte un certo
malcontento, alimentato dal fatto che in alcuni casi sembrano fondate
le critiche rivolte agli operatori, che appaiono agire in modo
superficiale e non sempre sembrano dotati di una accettabile
preparazione specifica. In più, non raramente L'argomento è in
realtà molto delicato, perché dai pareri di questi operatori
discenderanno poi -come detto precedentemente- provvedimenti che
segnerannno per anni e anni la vita di adulti e minori.
Se
in queste ultime righe abbiamo sinteticamente descritto incarichi dai
soli aspetti di “consulenza”, nei quali cioè i Servizi Sociali o
comunque gli operatori incaricati devono solo riferire su quanto
vedono esprimersi nelle coppie di genitori relativamente
all'esercizio della genitorialità, passiamo ora a discutere di
quegli interventi che il Giudice a volte dispone per rimediare ai
gravi problemi di conflittualità che emergono nelle coppie in
separazione.
In
questi casi, nelle more di un procedimento di separazione (e anche a
causa della grave -in termini di traumaticità dell'esperienza-
durata dello stesso), il Giudice dà mandato ai Servizi Sociali (o,
anche qui, al Consultorio di zona o ad un settore specializzato della
ASL) di intervenire per porre rimedio ai disturbi della
frequentazione, e dei rapporti genitore-figli, che emergono nei
sistemi familiari in separazione.
Si
tratta dunque di incarichi che hanno già una dichiarata valenza
terapeutica, e che proprio per questo abbisognerebbero di particolari
competenze.
In
realtà, nella maggior parte dei casi tali interventi sono recepiti
con una certa insoddisfazione, da parte degli utenti cui sono
rivolti.
Il
più delle volte, infatti, risultano inutili o addirittura
frustranti, per una molteplicità di motivi, che vanno dalla scarsa
disponibilità di uno dei genitori (in genere l'affidatario o il
collocatario prevalente), alla incapacità dell'altro di accettare
l'intervento esterno (vissuto con quella diffidenza e sospettosità
verso i professionisti, tipica del genitore deprivato di un figlio)
alla -bisogna pur dirlo- scarsa preparazione e competenza degli
operatori che intervengono.
Il
genitore affidatario o collocatario con il figlio, tende infatti a
sabotare una tale “terapia” e gli incontri, anche laddove il
percorso sia stato stabilito da un dispositivo del Tribunale,
aderendovi svogliatamente e trascurando che il figlio vi partecipi
con puntualità e precisione, e assumendo dunque un atteggiamento
svalutativo sia rispetto alla qualità dell'intervento, sia alla
adeguatezza dei professionisti coinvolti.
Il
genitore vittima della rescissione dei rapporti, invece, tende ad
avere ovviamente una partecipazione puntuale e precisa, specie agli
inizi, ma non raramente tende a inutilizzare il percorso ponendosi in
modalità rivendicatoria, e sterile, verso il fine proposto e, nel
caso, verso gli operatori.
I
quali, e dobbiamo segnalarlo, non sempre sono all'altezza del compito
affidato loro, sia perché percepiscono come frustrante e demotivante
il clima creato dagli adulti, sia perché non dispongono di
conoscenze tecniche specifiche, sia perché non rarissimamente, per
non dire il più delle volte, si dispongono a organizzare la
“terapia” come se trattassero una pratica burocratica. Anche a
costo di essere ingenerosi verso quegli operatori competenti ed
entusiasti che -e ce ne sono molti- attendono ad interventi del
genere con scrupolo ed attenzione, bisogna infatti considerare come
in molte occasioni incarichi del genere sono percepiti dagli
operatori incaricati non come indicazioni a svolgere una terapia che
sarà fondamentale nella vita dei soggetti coinvolti (e lo sarà di
fatto quanto un intervento chirurgico a cuore aperto, perché sono
interventi da cui dipende l'esclusione dalla vita di tutti di un
familiare), ma come indicazioni burocratiche ad assolvere un compito
essenzialmente burocratico, nel quale, in aggiunta, saranno riversate
molte delle insoddisfazioni professionali e personali dell'operatore,
allorché dovrà confrontarsi con soggetti irritati, diffidenti,
aggressivi, rivendicatori, svalutanti. L'incapacità a pensare al
contatto con questi soggetti in termini di “rapporto
psicoterapico”, e a gestire le problematiche personali che tali
contatti innescano, il considerare tutto come una pratica da evadere
sbrigativamente e negli orari di lavoro, magari pensando ad altro,
l'assenza di competenze e conoscenze professionali specialistiche (e
di un percorso personale di gestione delle proprie problematiche)
sono i veri punti critici che rendono puntualmente fallimentari o
quanto meno inadeguati i suddetti tentativi di recupero della
genitorialità.
In
tanti anni di coinvolgimento in contesti del genere, solo in una
occasione abbiamo trovato infatti genitori soddisfatti del programma
terapeutico impostato: avevano lavorato con una psichiatra e una
psicologa giovani ed entusiasti. Osservato da questo punto di vista,
grande importanza potrebbe avere dunque anche la predisposizione con
il quale il professionista affronta la terapia, non essendo
inverosimile che nei casi più gravi si attivi, per così dire, un
cortocircuito, nel quale il crollo delle aspettative nei genitori
(per motivi opposti), convalida nei terapisti l'inutilità di averne
delle proprie.
Usualmente,
i setting individuati in questo tipo di interventi sono abbastanza
“banali”: fondati su una generica impostazione
sistemico-relazionale, prevedono incontri che durano un'ora, basati
sul colloquio tra il terapista e il o i minori coinvolti nella
separazione, ai quali vengono invitati a volte a partecipare anche i
genitori di questi.
I
colloqui tendono ad approfondire cosa accade ai minori al di fuori
degli incontri, e i motivi per i quali i rapporti con l'altro
genitore sono rarefatti o nulli.
Data
la grande (e grave, a nostro avviso) atipia del setting, in genere il
colloquio si fonda sul cercare di far percepire come infondato e
dannoso l'interruzione dei rapporti tra il figlio e il genitore,
ovvero di favorire (in caso di sedute congiunte), il dialogo
genitore-figlio, o anche tra i due ex coniugi e i minori.
In
diversi casi, nel genitore per il cui “recupero” è predisposto
l'intervento, viene riscontrato un atteggiamento rivendicatorio e
aggressivo, di cui gli viene fatto carico (e che viene segnalato
anche nelle relazioni al tribunale).
Molto
probabilmente, tale atteggiamento è il risultato sia di pregressi
stili cognitivi e caratteriali, o di pregressi disagi della
personalità, sia, unitamente a questi, della dimensione gravemente
traumatica che si esperisce allorché ci si vede interrotti i
rapporti con i propri figli.
Non
raramente, però, e questo anche per inesperienza o non completa
formazione degli operatori, tale atteggiamento viene identificato
come il vero problema, quello che tiene lontano il minore dal
genitore rescisso, e questo complica notevolmente le possibilità di
recupero della situazione. Non sempre, cioè, gli operatori si
rendono conto che l'atteggiamento rivendicatorio, aggressivo e ostile
del genitore rifiutato o deprivato ha una netta valenza
post-traumatica, e ne fanno carico al genitore quasi come se fosse
una sua scelta o una sua colpa.
Un
tale atteggiamento da parte degli operatori, che a nostro avviso è
grave e può distruggere tutta la terapia intentata, a nostro avviso
potrebbe costituire una imperizia o una colpa anche gravi (vedasi il
paragrafo successivo, relativo ai cenni medico-legali), perché chi
si occupa di casi del genere dovrebbe -e lo esprimiamo volutamente in
linguaggio non scientifico- quanto meno sapere anticipatamente conto
che il minimo che può accadere ad un genitore privato dei figli sia
una reazione di questo genere. Che certo non deve essere validata sul
piano razionale e comportamentale, ma che comunque va diagnosticata
per quello che è.
Non
raramente, comunque, reazioni di questo tipo degli operatori, che
spesso vivono sul piano personale le reazioni e gli “acting out”
dei genitori con cui hanno a che fare, sono responsabili del
fallimento di siffatte terapie. Dal nostro punto di vista, non
riuscire a gestire -ovviamente in modo costante e comunque
significativo- il proprio “controtransfert” in simili frangenti
costituisce, dato il contesto particolarmente delicato, una colpa e/o
una imperizia anche gravi. Sarebbe tuttavia importante che nei
settori istituzionali più facilmente coinvolti in incarichi del
genere, si avviassero gruppi di ricerca o quanto meno di
aggiornamento, circa terapie del genere, così come gruppi per la
gestione dell'inevitabile burn out.
Bisogna
comunque considerare che non esistono ovviamente protocolli di
intervento standardizzati, e che sarebbe pertanto importante rifarsi
a setting ed impostazioni conosciute, in modo da avere un sicuro
riferimento che porti almeno ad operare con coerenza. Sempre dal
nostro punto di vista, riteniamo però che per affrontare casi del
genere bisogna avere solide conoscenze nel campo della terapia
familiare e, comunque, un buon percorso analitico o, comunque ancora,
un addestramento che metta in grado di far fronte all'inevitabile
frustrazione e senso di malcontento che gestire terapie (e genitori)
del genere, comporta.
Purtroppo,
riteniamo di dover concludere questo paragrafo con la constatazione
che, in ogni caso, i risultati di questo tipo di interventi tendono
ad essere deludenti, tranne, come detto, rare evenienze: molto
probabilmente, il contesto istituzionale -ASL, Servizi Sociali,
Consultorio, ecc.- non aiuta molto o per nulla nella riuscita di tali
interventi.
5.1.1.
Cenni
sulla responsabilità professionale degli operatori dei Servizi
Sociali incaricati dal Giudice
Avv.
Massimiliano Fiorin – Foro di Bologna
La
prassi giudiziaria, riguardo alle consulenze affidate agli operatori
dei servizi sociali presso i Comuni e le ASL italiane, presenta
numerose criticità.
In
primo luogo, esiste una sensibile discriminazione di tipo
organizzativo-territoriale, secondo la quale il giudice ordinario, il
giudice tutelare, ovvero il Tribunale dei Minorenni, tendono a
ricorrere ai servizi sociali con frequenza tanto maggiore quanto più
il servizio è strutturato nell’ambito della loro circoscrizione.
In
altre parole, nelle zone del territorio nazionale dove il servizio
sociale è meno presente, o comunque meno operativo – come nei
centri urbani minori, e in vaste aree del mezzogiorno – è più
probabile che gli uffici giudiziari tendano a affidarsi a liberi
professionisti, ovvero a omettere il più possibile il ricorso alla
consulenza e/o all’intervento coattivo dei servizi.
Tutto
ciò dipende dal fatto che nel nostro ordinamento il giudice gode di
un’ampia discrezionalità nella scelta dei propri ausiliari. A ciò
si aggiunga che, se nei tribunali ordinari esiste un minimo di tutela
procedurale, questa di fatto viene completamente a mancare presso i
tribunali dei minorenni. Di conseguenza, è presso questi ultimi che
le situazioni più critiche e discutibili assumono un carattere
endemico.
Il
giudice ordinario, infatti, ai sensi dell’art. 61 c.p.c. deve
“normalmente” scegliere i suoi consulenti tecnici “tra le
persone iscritte in albi speciali formati a norma delle disposizioni
di attuazione al presente codice”. Il singolo giudice può derogare
alle liste delle persone iscritte nei suddetti albi, per rivolgersi a
un altro professionista di sua fiducia, ma in questo caso deve
ottenere l’autorizzazione del Presidente del Tribunale, e
soprattutto rimane pur sempre soggetto al principio per cui la scelta
deve essere operata tra persone “di particolare competenza
tecnica”.
Inoltre,
i professionisti scelti dai tribunali civili e penali operano a
seguito di un giuramento, che li vincola a adempiere il compito
ricevuto secondo scienza e coscienza, e comunque nell’ambito di
regole procedurali che consentono alle parti – e agli specialisti
scelti da queste – di intervenire in contraddittorio, sia nel corso
delle indagini di fatto, sia nella fase di elaborazione del parere
del consulente incaricato.
Per
quanto invece riguarda i tribunali dei minorenni, che nella prassi
sono sempre più interessati alle situazioni di crisi genitoriale e
di abbandono di minore, è invece quasi completamente esclusa
l’applicabilità delle norme del codice di procedura civile. Ciò
significa che i giudici di detti tribunali (che sono in maggioranza
non togati) sono soliti incaricare i servizi sociali, ovvero
professionisti esterni di loro fiducia, senza alcun controllo né
possibilità di contraddittorio da parte dei legali che assistono i
genitori interessati.
Lo
stesso, peraltro, avviene nel corso dei procedimenti civili di
separazione in cui viene richiesto un provvedimento urgente di
sospensione della potestà genitoriale, o anche solo l’affidamento
esclusivo del minore: non è raro che anche il giudice ordinario, in
questi casi, prima di disporre una consulenza tecnica d’ufficio, da
affidarsi normalmente a uno psicologo o a un altro specialista – e
di fatto, molte volte, in luogo di questa – si avvalga dei poteri
concessigli in caso di urgenza, per richiedere l’intervento degli
assistenti sociali.
Così,
molte volte, fin dal momento in cui la situazione di crisi viene
posta all’attenzione del giudice – a seguito di una denuncia che
normalmente proviene da uno dei genitori, o in casi più rari
dall’ambiente scolastico frequentato dal minore che manifesta
disagio – i servizi sociali del comune di residenza del minore in
questione vengono subito incaricati di intervenire a redigere una
relazione conoscitiva.
Questo
fatto, in primo luogo, richiede che i servizi stessi siano in grado
di supportare l’incombenza, cosa che è sempre meno scontata, sia
nei piccoli centri, dove il servizio è meno strutturato, sia nelle
grandi aree urbane, dove gli operatori alle dipendenze del Comune o
dell’Azienda Sanitaria Locale sono spesso sotto organico.
In
genere gli operatori dei servizi, vista l’assenza di stretti limiti
procedurali, prendono contatto con il minore interessato e i suoi
familiari in modo diretto e informale, al di fuori di qualsiasi
possibilità di contraddittorio da parte di professionisti di fiducia
nominati dalla famiglia. Anzi, le linee guida che vengono normalmente
seguite dagli assistenti sociali suggeriscono che l’assunzione di
informazioni, nelle situazioni di crisi familiare, avvenga al di
fuori di qualsiasi interferenza esterna, soprattutto quella degli
avvocati, che tendono a essere considerati come fattori di disturbo
per l’accertamento della verità.
Gli
assistenti sociali sono altresì espressamente richiesti di
relazionare con attenzione – assieme ai vari particolari della
situazione di fatto, e all’anamnesi della storia pregressa e
attuale della coppia genitoriale – anche le reazioni frapposte dai
genitori interessati dal loro intervento. In particolare, viene
evidenziato se gli stessi si dimostrano collaborativi, ovvero ostili,
nei confronti dell’intervento dell’operatore.
Già
questa prassi può comportare un sensibile squilibrio di fondo, nel
successivo trattamento delle situazioni di crisi familiare e
genitoriale. Infatti, le eventuali reazioni negative di uno o
entrambi i genitori di fronte all’intervento coattivo dei servizi
(ostilità, freddezza, rifiuto di fornire informazioni, scarsa
disponibilità a vedere invasa da un estraneo la propria intimità
familiare, già messa a dura prova dalla crisi), benché siano
perfettamente spiegabili e addirittura prevedibili su un piano
psicologico, rappresentano un fattore assai negativo nella
valutazione che verrà data da parte dell’assistente sociale.
Allo
stesso modo, è facile vedere che in molte relazioni predisposte a
uso del magistrato, gli assistenti sociali prediligono,
nell’osservazione della situazione di fatto, i particolari che
rivelano le condizioni sociali e economiche del genitore, e talvolta
la sua affidabilità “sociale” (puntualità, abilità nella cura
del bambino, o addirittura eventuali trasandatezze nel vestire e
nell’igiene personale). Tutto questo, però, senza troppo riguardo
per le possibili cause psicologiche dei disagi apparenti.
Il
problema consiste dunque nella preparazione di fondo degli assistenti
sociali, che è molto più di tipo sociologico che psicologico. In
Italia, la legge istitutiva dell’ordine degli assistenti sociali
risale al 1993, dopo che la professione era stata svolta
esclusivamente da operatori volontari, spesso privi di una reale
formazione specifica. I corsi di laurea specialistica per assistenti
sociali hanno preso quota solo dopo il D.P.R. 5 giugno 2001, n. 328,
che tuttora consente di operare in questo settore anche a coloro che
sono privi di laurea specialistica, ma hanno conseguito soltanto un
diploma di laurea triennale.
Ad
ogni modo, la formazione degli assistenti sociali è per l’appunto
di tipo prevalentemente sociologico, senza particolari
approfondimenti di psicologia della famiglia, o di psicologia
dell’età evolutiva. Tutto questo è perfettamente riscontrabile
nel modo in cui, di fatto, essi si trovano a dovere esprimere giudizi
sull’idoneità genitoriale delle persone che vengono sottoposte
alla loro valutazione: le problematiche di tipo economico e sociale
tendono a essere valorizzate molto più che non i bisogni affettivi,
per non parlare della evidente insufficienza di questi operatori nel
saper riconoscere e affrontare i disturbi del comportamento o le
sindromi da separazione, tra le quali il mobbing genitoriale.
Se
si considera che, in molti casi, il parere dei servizi sociali
diventa di fatto determinante per la decisione del giudice di
allontanare il minore dalla famiglia, o di negare l’affidamento
dello stesso a un genitore, si possono intuire i rischi ai quali i
figli di coppie genitoriali in crisi si trovano esposti.
Capita
spesso, agli avvocati, di sentirsi chiedere dai genitori interessati
da provvedimenti giudiziari riguardanti la loro idoneità
genitoriale, se sia possibile denunciare gli assistenti sociali o gli
altri ausiliari del giudice (se non proprio il giudice stesso), per i
giudizi espressi nelle relazioni e nei provvedimenti.
Il
più delle volte si tratta delle reazioni istintive di chi, in
effetti, si vede colpito da un duro giudizio relativo alla propria
sfera personale e affettiva, che viene comprensibilmente ritenuto
troppo gratuito e infamante. Tant’è che, in molti casi, la
superficialità con la quale vengono espresse certe valutazioni
piuttosto tranchant sulla
idoneità genitoriale, se non proprio sull’equilibrio mentale del
soggetto esaminato, colpisce anche l’occhio dell’osservatore
imparziale. Tuttavia, le possibilità di ottenere soddisfazione
giudiziaria contro la superficialità e l’incompetenza con cui
vengono espressi certi giudizi è molto bassa e aleatoria.
Il
nostro ordinamento conosce varie fattispecie penali, più o meno
legate a quella della consulenza infedele o dell’intralcio alla
giustizia, in cui l’ausiliario del giudice ha agito dolosamente
contro i propri doveri.
Sussiste
anche la responsabilità civile dell’ausiliario del giudice che
commette un falso ideologico o materiale nelle sue relazioni (anche
se, di fatto, è assai difficile che vengano scoperti casi in cui
l’interessato abbia rappresentato volontariamente fatti non
contrari al vero).
Ma
a parte queste situazioni estreme, la possibilità di impugnare
relazioni viziate dalla manifesta incompetenza del perito che le
redige, o di invocare per lo stesso motivo una sua responsabilità
professionale presso l’Ordine di appartenenza, è alquanto ridotta.
Intanto,
non è mai punibile di per se stessa l’offensività di certi
giudizi per la reputazione dei genitori o dei minori interessati,
trattandosi di atti destinati a un procedimento giudiziario. Questo a
meno che non si tratti di offese non solo del tutto gratuite, ma
anche completamente estranee alla materia oggetto di accertamento,
cosa che non avviene quasi mai.
Per
il resto, va osservato che in questi casi non ci si trova nel campo –
ben più sensibile – in cui la negligenza o l’imperizia del
professionista può dare luogo a responsabilità contrattuale, ma
semmai in quello della responsabilità extracontrattuale da fatto
illecito.
Ora,
in linea di principio, tale responsabilità è regolata dall’art.
64 c.p.c. secondo il quale “il
consulente tecnico che incorre in colpa grave nell'esecuzione degli
atti che gli sono richiesti, è punito con l'arresto fino a un anno o
con l'ammenda fino a 10.329 euro”.
Detto articolo aggiunge infatti che, oltre alla sanzione
pubblicistica, “in ogni caso è dovuto
il risarcimento dei danni causati alle parti”.
Pertanto,
la possibilità di venire risarciti dei danni materiali e morali
derivanti da gravi responsabilità colpose dell’ausiliario del
giudice sussiste, ancorché costui operi al di fuori di ogni vincolo
privatistico, atteso che il consulente è un ausiliario del giudice
ed opera in funzione dell’accertamento che al giudice è demandato,
ovvero in funzione del superiore interesse della giustizia (sul punto
v. Cass. civ., 25 maggio 1973, n. 1545).
Per
individuare una responsabilità di questo tipo nei confronti delle
parti, occorre rifarsi al criterio della colpa grave, a quello della
sussistenza effettiva del danno, e infine al nesso di causalità tra
la condotta del perito e il danno stesso (Cass., Sez. III, 1 dicembre
2004, n. 22587). Il consulente del giudice, quindi, come ogni
professionista intellettuale, risponde dei danni cagionati alla parte
che siano in rapporto di causalità con le sue attività, laddove
nello svolgimento dei suoi compiti sia riconoscibile in capo
all’operante il requisito della colpa grave.
Tuttavia,
al danneggiato compete la prova, oltre che del danno, anche quella
del nesso di causalità tra esso e la condotta del consulente, e
soprattutto la caratterizzazione della colpa in capo a costui in
termini di assoluta gravità. Per questi motivi, se la possibilità
esiste sul piano teorico, è piuttosto difficile provare che il
consulente del giudice abbia agito con colpa grave, consistente in
negligenza
o imperizia
professionale. Queste ultime, infatti, in mancanza del vincolo
contrattuale con la parte che subisce la perizia, vengono valutate in
modo meno rigoroso.
Occorrerebbe,
in linea di principio, che nell’attività del consulente sia
completamente mancata l’assunzione di elementi di fatto decisivi
per la valutazione del caso (negligenza), oppure che – non
necessariamente in alternativa – tali elementi siano stati valutati
con assoluta incompetenza professionale, rispetto alle conoscenze che
sarebbero richieste per svolgere il ruolo (imperizia). Ciò al punto
che, al limite, in simili casi si dovrebbe ritenere che il perito
avrebbe dovuto piuttosto astenersi dal prestare il proprio giudizio,
riconoscendosi privo di conoscenze adeguate.
Esiste
infine la possibilità di presentare esposti al comitato giudiziario
che, ai sensi degli articoli 14 e seguenti del codice di procedura
civile, provvede alla scelta e alla nomina dei consulenti tecnici che
vengono inseriti negli albi, ed è responsabile dei procedimenti
disciplinari nei loro confronti. Detti procedimenti vengono promossi
dal Presidente del Tribunale, e possono portare alla esclusione
dall’albo. Tuttavia, casi di esclusione di ausiliari del giudice,
in cui la violazione dei doveri d’ufficio sia stata ravvisata nella
grave imperizia o nell’errore di giudizio, sono abbastanza
residuali.
Alquanto
diversa potrebbe essere, in linea di principio, la situazione che
riguarda gli incaricati dei servizi sociali. Infatti, a ben vedere,
la norma dell’art. 64 c.p.c. si applica solo ai consulenti che
hanno esercitato il proprio in carico a seguito del formale
giuramento, e nelle forme prescritte dal codice di procedura.
Gli
operatori dei servizi sociali, che sono richiesti di intervenire per
redigere relazioni conoscitive sulla situazione di crisi genitoriale,
e non vere e proprie consulenze tecniche, possono essere considerati
ausiliari del giudice solo in senso lato, e dunque – a rigore –
potrebbero essere ritenuti esenti dal limite di responsabilità per
la sola colpa grave, prevista dal citato art. 64 c.p.c.
L’esito
pratico potrebbe dunque essere diverso: infatti, se per gli ausiliari
del giudice in senso stretto vale il limite della colpa grave
previsto espressamente dall’art. 64, per i semplici incaricati dal
giudice, che operano al di fuori del vincolo della consulenza
tecnica, dovrebbero valere le comuni norme sulla responsabilità
professionale. Vale a dire che l’assistente sociale potrebbe essere
ritenuto responsabile per i danni arrecati ai minori e ai genitori (a
condizione che si provi il nesso di causalità) anche per colpa
lieve, cioè per tutti i casi di negligenza, imperizia o imprudenza
nell’esercizio delle proprie funzioni.
Esiste
è vero, l’art. 2236 del codice civile, in virtù del quale tutti i
professionisti intellettuali comunque godono dell’esimente dalla
responsabilità per colpa lieve, nei casi in cui la loro prestazione
implichi “la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”.
Si tratta di una norma che, a ben vedere, dovrebbe operare solo nei
casi di responsabilità contrattuale, quando cioè il professionista
opera su mandato del cliente, e non per adempiere a una richiesta del
giudice.
Tuttavia,
se da una parte la giurisprudenza sta sempre più assimilando questo
tipo di responsabilità del professionista a quella contrattuale, in
base alla nota teoria del “contatto sociale” che consente di
sopperire alla mancanza di un vero e proprio contratto d’opera tra
le parti, nel contempo essa ha individuato il principio per il quale
“problemi speciali esigono dal professionista una competenza
speciale” (v. Cass. 25 settembre 2012, n. 16254).
Vale
a dire che, anche per il professionista che esercita il suo compito
senza vincolo contrattuale tra le parti, è sempre più difficile
invocare a propria scusante la difficoltà del compito, pretendendo
di essere esonerato da responsabilità per colpa lieve in base
all’art. 2236 cod. civ. Peraltro, va aggiunto che il professionista
non può mai ritenersi esente da colpa, qualora la sua mancanza non
sia consistita in un caso di imperizia – cioè di mancanza di
conoscenze tecniche adeguate – bensì di negligenza o di
imprudenza.
Quanto
si è detto per gli assistenti sociali può operare anche per altri
professionisti, in una casistica relativamente nuova, che ha iniziato
a ricorrere più spesso dopo l’approvazione della legge 8 febbraio
2006, n. 54, sull’affidamento condiviso. Capita infatti con una
crescente frequenza che, nell’ambito del trattamento delle
separazioni conflittuali, il giudice incarichi i servizi sociali –
ovvero i propri professionisti di riferimento, specialisti di
psicologia – di intervenire nella situazione di crisi familiare non
a scopo conoscitivo, bensì per aiutare le parti a trovare una
soluzione.
Può
dunque capitare che all’ausiliario del giudice sia richiesto di
intervenire per verificare le possibilità di recupero di normali
frequentazioni della prole da parte del genitore non affidatario,
oppure per disciplinare le modalità delle visite a fronte della
difficoltà degli interessati di provvedere da soli, o anche, del
tutto esplicitamente, per tentare una mediazione che porti a una
trasformazione del procedimento in una separazione consensuale.
In
tutti questi casi si recupera l’autentica portata della cosiddetta
giurisdizione volontaria, cioè di quell’ambito della giurisdizione
in cui il magistrato non opera per tutelare i diritti soggettivi
decidendo sui contenziosi, bensì per integrare le libere
determinazioni delle parti stesse, in casi nei quali tradizionalmente
si parla di “amministrazione pubblica del diritto privato”,
benché il giudice finisca ugualmente per incidere su situazioni
giuridiche protette.
In
tutti questi casi, a maggior ragione, in linea di principio si può
dire che il professionista incaricato dal giudice sia tenuto a
rispettare gli stessi doveri di competenza, prudenza e diligenza che
gli spetterebbero nell’ambito di un normale contratto di opera
intellettuale, e che la sua responsabilità verso le parti e anche
verso il minore – sia pure in assenza di un formale vincolo
negoziale – sia assimilabile alla responsabilità contrattuale.
5.1.2.
Tentativi
di intervento clinico in casi di c.d. "alienazione parentale" con
interruzione del legame genitori-figli:
una
premessa
Nella nostra pratica clinica ci siamo trovati diverse volte, a partire da una quindicina di anni circa, di fronte alla richiesta di intervento clinico nei casi di cosiddetta alienazione parentale. Si trattava nella maggior parte dei casi di padri che da mesi, il più delle volte da anni, avevano perso il contatto con i loro figli, che vedevano e sentivano rarissimamente. In alcune occasioni, in concordanza con le statistiche (che vedono le madri minoritarie, ma non escluse, dai processi di alienazione), la stessa richiesta ci è stata rivolta da madri. Conseguentemente, abbiamo tentato di approntare, nel tempo, delle ipotesi terapeutiche, le prime delle quali erano rivolte al contenimento dell'angoscia da separazione. Nei contesti a transazione mobbizzante, nei quali la PAS o la “Alienazione Parentale” possono diventare realtà molto vive, e si incontrano genitori che hanno perso i contatti con i figli da anni, l'angoscia da separazione è una angoscia spesso incontenibile, perché lontanissima dalla possibilità di riconoscere un punto di realtà al quale ancorarsi: se la morte di un congiunto permette di mettere un disperato segnale di fine e di un nuovo inizio, il contesto della alienazione parentale, specie quello con assenza totale o pressoché totale di contatti, diventa un contesto che rimanda sempre alla creazione di nuova sofferenza, perché la fine, contrariamente a quanto accade in un lutto reale, è una fine che non finisce mai. Il figlio tanto voluto vive magari a mezzo chilometro da casa, e solo che l'“altro” lo volesse -così sembra alla vittima della alienazione parentale, e così molto spesso è-, quel figlio sarebbe immediatamente avvicinabile. E' dunque una situazione che spinge a sofferenze terribili e a comportamenti non sempre controllabili e gestibili, perché quello che allo psicoterapeuta appare come un “acting out” rabbioso e autodistruttivo, al genitore “alienato” sembra -e ai suoi occhi “è”, e spesso ci sono moltissime evidenze a confermarlo- una soluzione quanto meno reale e concreta, nonché legittima e giustificata, anche quando si tratta di rischiare anni di galera e, soprattutto, confermare all'altra parte la visione perversa e negativa che l'altra parte vuol dare del genitore alienato. Tenendo poi conto di come il contesto giudiziario offra uno spazio abbastanza atipico di possibilità di “agire” -in cui la chiave è sempre un poter agire attraverso qualcuno e qualcosa (ad esempio, una nuova richiesta al giudice attraverso il proprio legale) ma che questo agire tende dunque a connotare (e sollecitare) ipotesi vendicative e persecutorie di un agire così mediato, è facile comprendere come “contenimento dell'angoscia” possa molto spesso significare -in contesti di grave PAS o la “Alienazione Parentale”- il richiamo alla possibilità di “acting out” auto- ed etero- lesivi, anche di una certa notevole gravità. In sintesi, il contesto giudiziario è un contesto molto legato al “poter agire” attraverso un atto giudiziario, ma questo, molto spesso e soprattutto molto facilmente, evoca nel genitore alienato un “poter agire” che va verso l'acting out etero- ed auto- lesivo come risposta all'”agito” che riceve -e che interpreta ovviamente come atto persecutorio- dal suo ex partner. Avere come obiettivo terapeutico il contenimento dell'angoscia da separazione di un genitore privato da “qualcun altro” e grazie alla tacita passività di una non sistema che dovrebbe garantire la giustizia, apre percorsi terapeutici difficilissimi, spesso disperati e disperanti, e che mettono a durissima prova anche la capacità dello psicoterapeuta di gestire il proprio “controtransfert”. Il più delle volte, ci si deve accontentare di non far precipitare una situazione già in grande bilico, e complicata da variabili socioeconomiche (il drastico e spesso gravissimo impoverimento economico, la perdita della propria abitazione, il ritorno a quella dei genitori e spesso della propria adolescenza, l'isolamento sociale, ecc.) che tendono a renderla ingovernabile. Tuttavia, dopo qualche tempo ci accorgemmo che l'aver ottenuto alcuni risultati nella gestione del dolore e della rabbia, in alcuni, sporadici, casi si trasformava in piccole, ma significative, modifiche nel rapporto con i figli “alienati” a riprova di come l'alienazione genitoriale sia –quanto lo sono d'altra parte molto patologie adolescenziali riconosciute come tali- una forma che, sindrome, malattia, o problema che sia- è, a volte almeno, molto sensibile alle modifiche al comportamento dei congiunti, e -in questo caso- alle modifiche di comportamento del genitore alienato. Nel giro di qualche anno sviluppammo dunque una sorta di know how conoscitivo che sembrava portare a diversi risultati nei contesti psicoterapici che riuscivamo a strutturare, e che non sempre si potevano identificare con i setting psicoterapeutici classici, anche e soprattutto in virtù della atipia della domanda che ci giungeva. Il più delle volte, a rivolgersi a noi erano i padri, perché innegabilmente in testa alle statistiche della deprivazione genitoriale, e ciò comportava che il più delle volte la domanda che ci raggiungeva era una domanda confusa e confondente tra istanze giuridiche, consulenze forense inutili, e una nascosta -e per questo ancor più disperata- richiesta di ascolto. Questo ci ha spinto a dover strutturare modelli di intervento abbastanza inusuali, che dovevano essere in grado di rispondere a richieste confuse, nascoste, non presentate come richieste di terapia, spesso di difficile decrittazione e dunque di difficilissima restituzione, non raramente colme di rabbia anche verso lo psicoterapeuta interpellato. Nel tempo ci siamo resi conto che esisteva non tanto un vero e proprio set di strumenti terapeutici -di prescrizioni, di strategie, di “consigli”, cioè- ma una filosofia di fondo dalla quale partire per cominciare a orientarsi in quel tipo di consulenza e giungere ai primi risultati: la gestione da parte del genitore alienato del proprio comportamento, in modo che non refluisse distruttivamente verso i due opposti poli che gli si profilavano -l'acting out distruttivo e/o la somatizzazione ingravescente. Non raramente, infatti, la maggior parte dei padri che si rivolgevano a noi si erano scoperti ipertensioni, disturbi del ritmo cardiaco, dermopatie -prima fra tutte la psoriasi- gastropatie e in special modo “gastriti” e sindromi da reflusso-, sindromi dismetaboliche, ecc., costringendoci anche a ritornare a forme di consulenza medica vera e propria, che dovevano comunque fare i conti con il disagio socioeconomico del genitore deprivato del figlio. L'impostazione di fondo con la quale affrontare questi casi però si andava sempre più delineando, e questo ci ha portato alla fine a coagulare il tutto in un orientamento di fondo: quello che nel capitolo successivo verrà descritta attraverso la riscoperta del mito di Ulisse, colto nel momento del suo rientro a Itaca, in una casa infestata da coloro che -non a caso- vogliono sottrargli tutto quello che ha di più caro. Da questo indirizzo, pensato come tale perché rivolto soprattutto ai padri, si è sviluppato un modello operativo che è stato poi comunque utilizzato anche con le madri, perché ovviamente distante da qualsiasi tipizzazione di genere.
5.1.3.
La
cicatrice paterna: frattura e possibilità di ricostruzione del
legame padre figlio nei casi di mobbing genitoriale
dr.
Gaetano Giordano
dr.ssa
Benedetta Rinaldi
dr.
Marco Muffolini
Il
ruolo del padre oggi è riconosciuto dagli esperti delle dinamiche
relazionali familiari, per la sua cruciale importanza nel favorire lo
sviluppo comportamentale, emotivo e intellettivo dei figli, ma tale
considerazione è stata – e lo è ancora! - il frutto di una
faticosa conquista dell'uomo nel corso dei secoli: una conquista che,
è bene ricordare, è eminentemente culturale, differentemente da
quanto è avvenuto per la madre che ha assunto biologicamente e
naturalmente le sue funzioni di procreazione e di cura verso la
propria prole (Zoja, 2000).
Luigi
Zoja, importante psicoanalista junghiano che ha studiato la
costruzione della figura paterna dalle sue origini seguendo un
percorso filogenetico, nel suo libro “Il gesto di Ettore” (2000)
sostiene che durante la sua evoluzione la specie umana si sarebbe
accorta di come la presenza paterna avesse una funzione peculiare
favorente la crescita e la protezione della prole.
Il
padre quindi è passato dall’essere primitivo che concepisce
spargendo il suo sperma indistintamente, a colui che concepisce
inteso come cum capere, ovvero in grado di prendere con,
accogliere, contenere, apprendere, immaginare, ricevere nell’animo.
E'
da questo momento che l'uomo ha iniziato a sviluppare il legame con i
figli, conquistando quello status che non ha ricevuto dalla natura,
ma grazie ad un percorso culturale e sociale per il quale ancora oggi
lotta affinché gli venga riconosciuto.
Il
ruolo del padre storicamente è stato considerato, in ambito
giuridico, come non fondamentale per l’educazione e lo sviluppo
psicofisico dei figli, tanto che nella stragrande maggioranza dei
casi, i figli di genitori divorziati vengono automaticamente affidati
alla madre, quale depositaria esclusiva della tutela dei minori,
questo a partire dalla Legge 898/1970 che indica come principale
prassi quella dell’affidamento esclusivo ad un genitore, sulla base
di un supposto interesse morale e materiale dei minori, relegando
così il padre ad una mera funzione di mantenimento economico.
Sono
dovuti trascorrere altri 36 anni affinché il Legislatore
introducesse quella che oggi è riconosciuta come “legge
dell’affido condiviso” (Legge 54/2006) restituendo ad entrambi i
genitori, almeno formalmente, la cura e la responsabilità della
formazione dei figli: tale legge infatti afferma che i figli hanno
diritto a mantenere un rapporto equilibrato con ciascuno dei genitori
anche nel caso in cui questi giungano ad una separazione e che la
potestà genitoriale è esercitata da entrambi.
Sebbene
negli anni, grazie alla costituzione di movimenti a sostegno della
bi-genitorialità sono stati raggiunti - almeno in teoria - degli
obiettivi di promozione culturale e sociale, legati alla crescita e
alla responsabilizzazione della diade genitoriale, l’evento della
separazione rimane un momento di rottura, non solo del nucleo
familiare ma anche degli equilibri relazionali che lo compongono.
Spesso infatti l’espressione della bi-genitorialità è messa a
rischio fin dal momento in cui la coppia decide di separarsi a causa
di un aspro conflitto coniugale che si ripercuote sulle competenze
genitoriali, mentre i figli si ritrovano all’interno di ripicche e
vendette tra gli adulti di riferimento. Siamo abituati a considerare
il nostro concetto di famiglia come sinonimo di unità di intenti in
cui i membri del gruppo tendono a convergere per un comune obiettivo
esistenziale; la separazione in questo senso è il fattore scatenante
di desideri individuali, spesso contrapposti, relativi a dimensioni
affettive, relazionali, economiche e di potere, dove c’è chi vince
e chi perde, secondo la logica della contrapposizione.
Da
quando è stato istituito il divorzio ad oggi, la logica della
contrapposizione ha dominato gli scenari giuridici ed emotivi di
tutte le parti in causa, alimentando un pulviscolo di agiti
istintuali, ovvero quel mettere in atto, senza consapevolezza, di
desideri, paure, angosce, rivendicazioni e pretese che continua a
negare nei fatti quella bi-genitorialità che riconosciamo solo
legislativamente e alla quale ci appelliamo elemosinandola, senza
renderci conto di quanto ancora culturalmente tutte le componenti, a
partire da quelle giuridiche (giudici, avvocati) la neghino.
Riteniamo
che un ruolo cruciale in questo senso sia quello assolto dal
linguaggio.
Genitori,
avvocati, giudici, giornalisti, opinionisti, talk show, programmi
d’approfondimento e tutti gli altri agenti interessati alla
questione hanno mutuato un linguaggio, tipico del conflitto, che
confina colui che si esprime e il contesto stesso, all’interno di
un recinto narrativo dove non c’è spazio né per l’espressione
pensata del proprio o dell’altrui vissuto, né per la costruzione
di alcunché, in quanto, tale linguaggio risulta per definizione
inadeguato, legato a logiche di contrapposizione e incapace di
esprimere le complessità di una condivisione che non può che
partire dal pensiero e l’espressione dello stesso.
Come
ovvio, tale clima influenza sempre più il clima conflittivo che si
sviluppa in una famiglia in via di separazione, e finisce per
divenire una legittimazione sociale e culturale al conflitto come
chiave di risoluzione delle controversie genitoriali.
Questo
ha fatto si che fosse considerato ormai
normale non solo il conflitto tra i due ex coniugi, ma anche le
strategie utilizzate per escludere l'altro
dalla gestione della prole. Come abbiamo visto, già da tempo anche
la cinematografia nazionale ha recepito, con ironia (il che esprime
quanto l'atteggiamento sia ormai di uso
corrente e considerato in qualche modo “scontato”) il fatto che a
dirimere una causa di separazione entri un utilizzo calunnioso del
codice penale.
Allo
stesso modo, per un paio di decenni almeno, il fatto che il padre
potesse essere escluso dalla gestione dei figli è stato considerato
un evento forse non normale (esiste -e prima esisteva ancor di
più- il fenomeno dei padri
che si assentavano volontariamente dalla vita dei figli, dopo la
separazione), ma sicuramente accettabile, e il desiderio dei padri
separati di non essere esclusi dalla vita dei figli, una sorta di
rivendicazione a volte anche folcloristica.
Ciò
ha comportato sicuramente dei problemi: l’uomo non affidatario,
oltre a doversi confrontare come abbiamo visto, con una serie di
limitazioni imposte dall’alto extra-familiare, ha dovuto fare i
conti con la propria identità di padre da ricostruire, distante da
quella madre, che è stata fondamentale per la sua formazione,
portatrice di un bagaglio biologico-culturale fondato
sull’accudimento della prole e in grado di accompagnare anche il
padre nella valorizzazione di quel ruolo che è altrettanto
importante.
Ed
è stato partendo da queste considerazioni che siamo andati alla
ricerca di uno specifico del “ritorno del padre” in famiglia,
quasi spingendoci a cercare una cultura dedicata a questo
tema.
Che
ci ha dato risultati importanti e interessanti, suggestivi anche per
quanto riguarda il punto di vista clinico.
Studi
recenti (Dowling, Barnes 2004) hanno messo in evidenza come la
maggior parte di ciò che i padri vivono con i figli è quasi
costantemente condiviso o dipendente dalle indicazioni della madre:
ciò significa che il comportamento paterno risulta inevitabilmente
legato allo status di “coppia”, quella stessa coppia che nei casi
di divorzio non può più rappresentare il contesto attraverso il
quale il padre può esprimere la sua genitorialità.
L’uomo,
diversamente dalla donna, non può identificarsi sin dalla nascita
con il corpo della madre, perciò tende a svilupparsi nel tempo
continuando a demandare alla donna la capacità ed il potere di
appagare i suoi bisogni e di riempire, a proprio arbitrio, il suo
vuoto di affetti, rischiando tuttavia di scadere a oggetto del potere
materno. L’uomo allora, per difendersi dal suo stesso desiderio di
passività dipendente, ipertrofizza il modello di comportamento
paterno arcaico (Montefoschi, 2001) che demanda la cura della prole
alla moglie, restando in seguito vittima di quel modello relazionale
rigido.
Uomo
e donna, seguendo l’imprinting
originario
della madre che nutre e del bambino che viene accudito, si sono
evoluti conservando tra di loro una relazione asimmetrica basata
sull’interdipendenza simbiotica dei bisogni, che si esprime,
culturalmente e politicamente, attraverso rapporti sociali fondati
sul reciproco asservimento (Montefoschi, 2001)[3].
L’uomo
non riuscendo a raggiungere la capacità di essere consapevolmente
autonomo rispetto alla gestione relazionale dei figli, tende ad
affidare alla donna il potere di controllarlo attraverso quella che
in seguito può esitare in una svalutazione attiva e costante del
ruolo paterno, fino ad una interruzione dei rapporti padre-figli.
Questo
aspetto è significativo se cerchiamo di comprendere i motivi che
espongono i padri ad una maggiore vulnerabilità e al mobbing
genitoriale: le vittime di mobbing lavorativo e familiare possono
essere soltanto coloro che il sistema identifica come deboli o di
difficile controllo. In tal senso il padre separato, nella nostra
cultura, rappresenta quello che nel gergo psicologico viene chiamato
il “paziente designato”: tale termine significa che il paziente è
il membro del sistema-famiglia che esprime o segnala il meccanismo
disfunzionale di uno o più sistemi, di cui egli è uno dei vertici.
Tale membro è "designato" dal sistema stesso in quanto
soggetto che esprime una modalità disfunzionale di vivere, pensare,
agire.
Il
padre, dopo la separazione, viene limitato legalmente nell’esercizio
della sua genitorialità e, dipendente dal ruolo familiare che ha
perso, si ritrova a dover costruire da solo un set di comportamenti,
atteggiamenti, vissuti emotivi da condividere con i figli, senza un
sostegno sociale e culturale, oggi più che mai indispensabile,
affinché il padre possa sviluppare una propria specificità
indipendente da quella materna.
Potremmo
quindi sostenere che è la madre colei che, agendo la sua
aggressività e controllo, designa l’ex marito come vittima di
un’esclusione dal sistema, eppure ad uno sguardo più approfondito
ci renderemo conto che anche l’uomo si è inconsapevolmente
lasciato coinvolgere in quella spirale violenta, a causa
dell’equilibrio precario sul quale ha costruito la propria figura
di padre, ma scendendo ancora di più in profondità apparirà più
chiaro come non basti un singolo attore a designare la sua vittima,
ma esiste un sistema allargato che ha indirettamente favorito un
humus aggressivo e controllante, ovvero il sistema culturale e
giudiziario in cui si sviluppano le future madri e i futuri padri.
A
nostro avviso è di fondamentale importanza iniziare a promuovere una
cultura scientifica e sociale in cui la paternità possa emergere
dall’ombra della madre, come dimensione di cui prendersi cura
attraverso progetti di sostegno e valorizzazione, e soprattutto
liberandola dalla logica della contrapposizione padre contro madre,
uomini contro donne. Uno dei pochissimi aspetti culturali in cui i
padri sono “previsti” durante l’iter della gravidanza sono i
famosi corsi pre-parto e in alcuni casi il parto stesso, dopodiché i
padri scompaiono sia per il mondo medico-psicologico che per quello
socio-culturale (ad esempio non è un caso che spesso, pur lavorando,
sono le madri a intrattenere le relazioni con il mondo della scuola o
con il gruppo dei pari).
Lo
stesso mondo della psicologia si è lungamente confrontato sulle
competenze materne, tralasciando in secondo piano l’importantissimo
ruolo del padre, spesso relegato al compito di chi detta le leggi e
si occupa economicamente della famiglia.
E’
necessario sviluppare un pensiero complesso (clinico, sociale,
culturale, legislativo) per riportare il padre alla sua prerogativa
genitoriale e affettiva, scongiurando il pericolo della sottomissione
al potere materno distruttivo e in questo senso il Mito ci ha
tramandato molti esempi di paternità, densi di significato e
attuali.
Zoja
percorrendo lo sviluppo mitologico e psicologico della figura paterna
(2000) mette in evidenza come la paternità non sia una questione
meramente biologica ma sia una ricerca, un viaggio, che l’individuo
deve intraprendere per riuscire a riconoscere sé stesso e i propri
figli.
E
Ulisse - l’eroe del poema omerico “Odissea” – è secondo Zoja
il sorprendente emblema dell’uomo moderno, che si mette in viaggio
per ritrovare il suo ruolo paterno e familiare.
Omero
descrive Ulisse come un uomo combattuto “tra il pensiero e il
cuore”, ovvero tra la razionalità e l’istinto, e proprio
l’istinto, l’impulsività, la tendenza a reagire spesso mettono a
dura prova gli individui proprio durante momenti critici come il
divorzio.
Davanti
alle angherie e alle violenze morali (e a volte non morali) spesso
perpetrate dalle ex compagne e dal contesto sociale e giudiziario, i
padri sentono di “dover agire, dover combattere”, insomma
uscire al più presto possibile e “con forza” dalla spirale di
manipolazione in cui si trovano.
I
termini stessi utilizzati dai padri (“devo combattere…
devo reagire… mi devo far giustizia”) fanno
proprio riferimento al loro sentirsi in guerra, vittime di
un’invasione sadica, in cui la sensazione di morire da un momento
all’altro, perdendo tutto ciò che si è costruito –
affettivamente, economicamente, socialmente – è fortissima.
Purtroppo
non sono rari i casi di padri balzati alle cronache per aver ucciso i
figli o l’intera famiglia in seguito ad una situazione di mobbing
genitoriale che era diventata emotivamente distruttiva.
I
vissuti dei padri mobbizzati sono molto penosi e devono essere
compresi e contenuti proprio per evitare simili escalation di
violenza intrafamiliare.
Padri
protagonisti di episodi di cronaca come quelli da noi seguiti, spesso
rimangono vittime delle proprie reazioni istintive, figlie di quella
logica della contrapposizione che in risposta ai soprusi subiti non
fanno che esporli ad ulteriori accuse (ad esempio di essere
aggressivo, paranoico, di spaventare il bambino etc.) generando
quindi un risultato opposto a quello voluto.
I
padri tentano cioè di risolvere il conflitto in cui si trovano
attraverso il conflitto stesso, senza rendersi conto che il mezzo
attraverso il quale si è cercata la soluzione, è in realtà il
problema. Nel prossimo paragrafo vedremo come, a partire da questi
aspetti, si possa tentare di promuovere un percorso di riabilitazione
e cura della figura genitoriale alienata.
Nei
paragrafi precedente abbiamo illustrato come lo studio e la ricerca
formale sul fenomeno del mobbing genitoriale abbia avuto inizio circa
10 anni fa (Giordano, 2004) eppure sull’intervento vero e proprio
nei confronti del sistema familiare colpito, non è stato ancora
pubblicato nulla e questo per un motivo di base specifico: quando
all’interno del nucleo familiare si è costruito progressivamente
un grave comportamento alienante, o tendenzialmente tale, ogni invito
alla terapia fallisce in quanto ormai il disagio è “ego-sintonico”
rispetto al funzionamento del sistema: i soggetti coinvolti non
credono di essere affetti da un grave disagio relazionale, ma sono
impegnati ad individuare all’esterno il colpevole che produce il
malessere (un po’ come un soggetto affetto da psicosi il quale, non
avendo consapevolezza del proprio malessere, cerca soluzioni e
risposte nei suoi deliri). In questo modo è estremamente difficile
che il sistema formuli spontaneamente una domanda di aiuto.
Allo
allo stesso modo, come detto precedentemente, anche per il contesto
sociale è spesso stato “normale” che un padre separato vedesse
sempre meno o per niente i propri
figli.
Il
padre deprivato dei figli, dunque, andava incontro a una serie di
problematiche psicologiche e fisiche che l'isolamento sociale, e
l'indifferenza con cui veniva accolto il suo status, lo rendevano
sempre più soggetto di patologie e comportamenti percepiti come
“disfunzionali” e, in quanto tale, sempre più considerato in
qualche modo meritevole di avere perso il contatto con i
figli.
L'emergere
sempre più pressante di una cultura delle “Pari Opportunità”,
che assegnava di diritto nuovi ruoli e nuove responsabilità alle
donne ma lasciava -stranamente- inalterati i “privilegi”
delle madri di sentirsi le assegnatarie di default e di fatto dei
figli, e dei relativi vantaggi economici, esasperava la situazione.
Come
detto precedentemente, questo
ci ha spinto a cercar di metter rimedio ai numerosi casi che si
presentavano alla nostra osservazione, cercando di evidenziare gli
aspetti più salienti del mobbing genitoriale suscettibili di
intervento, un intervento pensato di fondo come “strategico” e
“sistemico” e studiare così
una serie di strategie di intervento per ridurre il danno e in alcuni
casi risolvere la dinamica conflittuale.
Il
primo aspetto è legato al contesto conflittuale in cui si esprime la
relazione tra genitore alienante e alienato: la violenza dei
comportamenti agiti dal genitore mobbizzante (costituiti da insulti,
svalutazioni, manipolazioni, ricatti verso i minori, diffamazioni
etc.) e l’intervento del sistema giuridico chiamato ad intervenire
dai coniugi (avvocati, giudici, assistenti sociali etc.) che spesso
collude con la logica della contrapposizione delle parti, elicitano o
anche determinano una reazione comportamentale disadattiva nel
genitore alienato, che purtroppo finisce spesso per legittimare,
attraverso i suoi comportamenti, le accuse che gli vengono mosse:
questo significa che più il genitore alienato cerca di reagire alle
angherie del coniuge per riappropriarsi del suo ruolo genitoriale con
gli strumenti che ha a disposizione, più facilmente si mette nella
condizione di favorire il comportamento di estromissione che andrà
poi a subire.
Per
questo il primo intervento che mettiamo in atto quando un genitore
alienato ci chiede un aiuto è la cosiddetta “analisi delle tentate
soluzioni”: secondo il paradigma della terapia strategica, che
riteniamo estremamente efficace in questo tipo di problematiche,
quando un soggetto chiede un intervento psicoterapico per un
problema, è verosimile che egli abbia già da solo cercato di
risolverlo attraverso una serie di pensieri o azioni che tuttavia si
sono rivelate inefficaci.
Un
esempio è quello di un padre che racconta di come, in seguito alla
separazione, la moglie gli abbia impedito in vari modi di avere una
serena e quotidiana relazione con i figli. In molti casi la tentata
soluzione che i padri possono mettere in atto è quella ad esempio di
presentarsi a casa della ex moglie chiedendo con forza di vedere i
figli, oppure minacciare la moglie di querela, o ancora di mettere al
corrente i figli di quanto la madre si stia comportando male.
In
questi casi l’analisi e la discussione delle soluzioni tentate dal
paziente ci permette di far capire al padre come quest’ultime siano
in realtà il problema che promuove e cronicizza il conflitto: più
il padre si adira ed entra in simmetria con i comportamenti
aggressivi agiti dalla ex moglie, più si metterà nelle condizioni
di vedere il suo ruolo rispetto ai figli - e anche dal punto di vista
legale – compromesso.
Il
nostro obiettivo sarà quindi aiutare il genitore mobbizzato a
riconoscere e a gestire le tentate soluzioni che corrispondono
paradossalmente a reazioni controproducenti rispetto alla sua
funzione genitoriale, e questo
utilizzando delle tecniche innovative e costruite ad hoc, ma
specificatamente di origine strategica e ispirate tutte alla
filosofia del “Ritorno di Ulisse”.
Ma
perché il mito di Ulisse può aiutarci a comprendere quella che a
nostro avviso è una via alternativa per risolvere, o attenuare, la
tragedia del genitore mobbizzato?
Ulisse
re di Itaca, dopo dieci anni passati a Troia a causa della guerra
vorrebbe ritornare agli affetti familiari, dalla moglie Penelope, dal
figlio Telemaco e alla nativa Itaca, ma l'odio del dio Poseidone,
glielo impedisce provocando continui incidenti e mirabolanti
peripezie per altri dieci anni, alla fine dei quali riesce di nuovo
a raggiungere casa. Ma il suo ritorno in famiglia sarà tutt’altro
che semplice infatti Ulisse trova la sua reggia invasa dai Proci, i
quali vogliono usurpare il suo trono, impadronendosi della casa e
della moglie Penelope.
Ulisse
scopre l’accaduto ma invece di reagire istintivamente, combattendo
subito contro i Proci, decide di aspettare il momento più opportuno
per riconquistare il regno e la sua famiglia e quindi decide di
celare la propria identità fingendosi un mendicante, anche con lo
stesso figlio Telemaco. “Il volere di Ulisse è pensiero e non
più pulsione, quindi può essere trattenuto. Ciò porta due novità
che sono anche due rinvii: l’attendere l’occasione esterna
propizia, quando essa non è ancora disponibile e il pazientare fino
a che le due alternative non trovino una sintesi interiore”
(Zoja, 2000) … Ulisse desidera la famiglia sopra ogni altra cosa:
ma sa che il soddisfacimento immediato è proprio la tempesta in cui
il padre e i suoi si separano. Il ricongiungimento con la famiglia
non è un impulso soddisfatto, ma privazione e progetto”.
La
tattica utilizzata da Ulisse è quella di non lottare esplicitamente,
non volendo vincere subito a tutti i costi: egli si rimpicciolisce,
si rende umile come un mendicante poiché non è interessato tanto ad
agire un’azione nobile in sé ed eclatante, piuttosto è
interessato al vantaggio che finalmente potrà ottenere: la
conoscenza nell’immediato e la riconquista della sua famiglia nei
tempi lunghi. E per queste cose è pronto a pagare il prezzo
dell’attesa.
Questa è proprio la
strategia che riteniamo possa aiutare i padri mobbizzati ad uscire
dal tunnel in cui si trovano: il padre, con coraggio e comprensibile
fatica, deve accettare di uscire dall’atteggiamento di
contrapposizione nei confronti della ex-moglie, poiché questo
significa inevitabilmente opporsi anche contro il figlio che, vittima
inerme, è fagocitato dall’angoscia di mettersi contro la madre
dichiarando il suo legittimo e struggente bisogno del padre.
Il
padre deve rimpicciolirsi, fingersi mendicante, attenendosi a quanto
imposto dal giudice e manipolato dalla moglie, per riconquistare non
nell’immediato, ma nel lungo termine il rapporto con il figlio. La
presenza paterna deve farsi “piccola nella quantità”, ma
significativa nella qualità delle interazioni possibili, per
ricordare al figlio che il padre, seppur lontano, c’è: fare al
figlio piccoli regali inattesi (un pelouche, un set di pennarelli
nuovi etc.) permette al bambino di sentire la presenza costante, ma
non ansiogena, del genitore.
Questo
comportamento consente al figlio di incamerare, a lungo termine, i
sentimenti di rispetto, pazienza e coraggio veicolati da quel padre
che così facendo non lo ha costretto a mettersi contro la madre o a
sentirsi in colpa per l’inevitabile alleanza con il genitore
affidatario.
L’idea
è quella di sfruttare la forza dell’aggressore per volgerla al
proprio guadagno.
Ulisse
ci dimostra come una simile presa di posizione giocata sull’apparente
arrendevolezza, sia un passaggio necessario per vincere contro i
Proci, gli arroganti e caotici invasori del luogo familiare.
Nonostante
il suo farsi povero e quasi invisibile, il re di Itaca mostrerà al
figlio il valore dell'attesa e la forza dell'umiltà: dice Zoja
(2000) “la sua pazienza e la sua umiliazione contrastano con la
violenza inutile. Se [gli uomini] vi riescono, ci restituiranno la
potenza del padre senza la prepotenza maschile. Se non hanno
successo, si avrà il maschio violento senza l'autorità”.
In fondo la grande
forza di Ulisse è racchiusa nella saggezza di sapere che egli ha
sempre presente l’alternativa da giocare nella vita.
5.1.4.
Il
ritorno di Ulisse2:
strategie
di intervento nel mobbing genitoriale
-
Maestro, come evitare il temporale?
-
Ecco che lo hai già dentro
da:
Yoel Hoffmann, "I detti del maestro Joshu", Astrolabio
Ubaldini Editore
Nota:
nella logica zen, pensare al “temporale” come un temporale,
realizza il “temporale”.
Nei
casi di mobbing genitoriale, e soprattutto nei
casi in cui è molto
presente la svalutazione della figura genitoriale nei confronti dei
figli,
la
regola è
l'attivarsi di un contesto paradossale, nel quale l'accusa contro
l'ex genitore si avvera grazie
al fatto
che il
genitore
mobbizzato reagisce all'accusa tentando di smentirla.
Nel
trattare questi
casi, abbiamo sviluppato la convinzione che il modo migliore per
gestire -meglio: tentare di gestire- un simile contesto, è non
cercare di dimostrare la falsità dell'accusa, ma cercare di
rispondere, o non rispondere, in modo che l'accusa si annulli, o
meglio: perda la sua efficace proprio
perché ha bisogno di convalidarsi attraverso i comportamenti dell'ex
partner.
Ovviamente,
quanto stiamo qui esponendo vale nell'attuale contesto
sociogiudiziario, nel quale non
esiste quasi,
o
proprio
per nulla,
la possibilità che le istituzioni attuino un intervento efficace.
Quanto
stiamo cioè dicendo si riferisce ai genitori deprivati dei figli,
isolati e abbandonati nei loro tentativi di uscire dal problema, e in
assenza di interventi, e di interventi efficaci (quando non
controproducenti, come visto), da parte delle “istituzioni”.
Non
ci riferiamo cioè
a suggestioni che pensiamo possano essere raccolte in aule di
Tribunale o nel corso di consulenze tecniche, posti e situazioni nei
quali la tutela del genitore mobbizzato dovrebbe essere di tutt'altro
tipo e non limitarsi, come spesso avviene, a generici (e convenienti
solo per chi li pone) inviti a rassegnarsi e lasciar perdere. Se i
tribunali e i tecnici, cioè,
devono intervenire, dovrebbero farlo non invitando il genitore
alienato a rinunciare a ciò che per prima la legge dovrebbe
garantire, ma dandogli quanto e ciò che gli spetta.
Ciò
premesso, il
primo punto su cui agire è dunque
la gestione del comportamento del genitore
alienato, che in genere sembra fare
di tutto
per confermare le accuse che gli vengono rivolte e per qualificarsi,
agli occhi dei figli,
esattamente per come viene descritto ad amici, parenti, e,
soprattutto, figli.
Questo
è un aspetto fondamentale, e spesso drammatico: si tratta di
convincere gente che soffre terribilmente, a tacere e a non cercare
di “reagire” a privazioni terribili, illegittime e illegali.
Spesso
si riesce a spiegare al
genitore alienato (o mobbizzato, i termini sono
qui utilizzati come sinimi) il
valore della rinuncia, come sistema di gestione del messaggio
negativo che “l'altro”
fabbrica contro il paziente, altre volte no. In genere è efficace il
paragone con le arti marziali orientali, di fondo strutturate sulla
gestione dell'energia dell'avversario in senso paradossale per
sbilanciarlo (“se
lui spinge, tu tiri, se lui tira, tu spingilo”).
Sicuramente,
si deve operare una “collusione
terapeutica”
(o una “alleanza
terapeutica”)
col genitore
mobbizzato, parlando un linguaggio di guerra e conflitto, dal momento
che il livello persecutorio, in questi
casi, è talmente alto, che un qualsiasi accenno ad una prospettiva
pacificatoria viene percepita come un tradimento. Una
buona tecnica, poi, è quella
che i terapisti strategici definiscono del “come
peggiorare”:
facendo cioè
immaginare a chi si ha di fronte cosa
si dovrebbe
fare
per far precipitare ancor di più la situazione,
si ottiene molto
frequentemente il risultato di convincere il genitore mobbizzato che
più tenta di ottenere ciò che desidera (e che, si badi, è più che
egittimo che ottenga), meno ottiene.
D'altra
parte, vero è che non può esserci effettivamente pacificazione, in
questi
casi, dal momento che il conflitto è sempre tenuto alto soprattutto
dal genitore mobbizzante, e dunque il vero obbiettivo è quello di
annullare “l'attacco” di cui il genitore mobbizzato si sente (ed
è davvero, in fondo: un fondo che però non deve esser vissuto
persecutoriamente, per dar corpo alle proprie ombre) ed è davvero,
dicevamo, vittima.
Una
volta che si riesce a concretizzare come valido l'assunto che non
bisogna opporsi agli attacchi ma favorirli invece di disperderli,
occorre passare ad analizza con estrema profondità il “contesto
mobbizzante”, e cercando di individuare quali sono le modalità che
più offrono spunti per una gestione “strategica”.
La
regola di fondo è comunque quella di escogitare quali comportamenti
tendano a far fallire le aggressioni del genitore mobbizzato, e una
delle “rinunce” che più ottengono effetto è proprio
la rinuncia a pretendere gli incontri. Ovviamente, parliamo di
situazioni nelle quali il rifiuto alle visitazioni non è ancora in
atto da anni, ma nelle quali i minori rifiutano i contatti pur
mantenendo qualche visita.
Il
primo obiettivo è infatti quello di stabilizzare la relazione con i
minori, in quanto nella nostra esperienza gran parte delle situazioni
di alienazioni parentale nascono da -o forse “con”, ma la cosa
non cambia di molto la realtà del contesto e dei tentativi di
rimedio- una tragica angoscia dei minori coinvolti, che si
percepiscono in mezzo a una terribile bufera e possono solo cercare
riparo, esterno ma anche interno, nel genitore alienante, per non
mettere a rischio la propria
sicurezza (che viene percepita anche come sicurezza fisica vera e
propria,
dal momento che il genitore alienante ha sempre qualcosa di
oscuramente minacciante e terribilmente ritorsivo, la cui
contropartita è una sorta di alleanza partnerizzante che sfocia poi
nell'arruolamento alienato).
Il
bisogno di integrare il modello accusatorio del genitore alienante
nasce qui dal bisogno sia di una sicurezza esterna, sia dal bisogno
di percepirsi coerenti, e non colpevoli invece
di “tradimento” ai danni del
genitore
alienato.
Quando
si va dunque ad agire in un contesto mobbizzante, bisogna dunque aver
massimo riguardo per questo drammatico equilibrio del figlio
alienato, e le possibilità di recupero da parte del genitore
alienato passano dal riuscire quanto più possibile a non metterlo
“contro sé stesso” e “contro i
propri
sensi di colpa” -spesso grandemente nascosti- e cercando di
non offrire alle sue “proiezioni” la legittimazione che il
genitore mobbizzante e alienante cerca di avere attraverso le sue
accuse (“Ricordi che tu rischi di essere la pallottola con cui
ti spareranno, se insisti a combattere”, è una delle nostre
frasi preferite).
In
questi
casi, dunque, la rinuncia agli incontri -accompagnata dalle
comunicazioni di cui diremo oltre- può avere un effetto
destabilizzante sul contesto mobbizzante e sul comportamento del
genitore alienante e su quello dei minori, e nel tempo si può
assistere a quello che per qualcuno è stato un miracolo. Quello che
accade è che viene “sbilanciata” la dimensione collusiva della
coppia, e fatta svanire la legittimazione alla “proiezione” della
propria
parte negativa sul genitore mobbizzato.
Come
detto
prima, in
realtà, questa
rinuncia agli incontri va accompagnata da una serie di comunicazioni
minimali, se non “virali”, con le quali si comunica ai
figli la propria
presenza affettiva nel rapporto, il proprio
non voler perdere i contatti, e via dicendo senza far mai cenno –
se non in alcuni casi selezionati- ai motivi per cui si preferisce
rarefare o minimizzare frequenza e tempi degli incontri.
Sms,
email, regalini con bigliettini brevissimi e/o fatti consegnare da
qualcun altro, sono
in questi
casi efficaci, spesso
anche
incredibilmente
efficaci: in
molti casi, si
ha la netta sensazione che più le comunicazioni riescono ad essere
“minimali”, più i minori tendono -con il tempo (la pazienza e la
resistenza alla frustrazione sono essenziali)- a riassestarsi in modo
non oppositivo verso
gli incontri con il genitore mobbizzato.
In
sostanza, bisogna in qualche modo rifarsi alla filosofia di Lao Tzu,
il fondatore del Taoismo, e riuscire a render concreta la sua Regola
Celeste:
Trenta
raggi convergono sul mozzo,
ma
è il foro centrale che rende utile la ruota.
Plasmiamo
la creta per formare un recipiente,
ma
è il vuoto centrale che rende utile un recipiente.
Ritagliamo
porte e finestre nella pareti di una stanza:
sono
queste aperture che rendono utile una stanza.
Perciò
il pieno ha una sua funzione,
ma
l'utilità essenziale appartiene al vuoto
(Lao
Tzu, La regola Celeste, http://www.aurorablu.it/libri/lao_tzu.htm
)
Bisogna
cioè far sì che lo spirito della affettività e della presenza
paterna giungano al figlio tanto cercato e tanto lontano attraverso
il vuoto e l'assenza, anziché attraverso la presenza, e dai pochi
ritagli di parole che gli si inviano egli legga -ed i figli in questo
sono maestri di spaventosa sensibilità- quello che il padre vuole
non tanto dirgli, ma fargli sapere e soprattutto “sentire”.
E'
evidente comunque che per strutturare una valida comunicazione
“virale”, in questi
casi, bisogna cercare di conoscere a fondo le logiche del sistema
mobbizzante, nonché le affettività e quanto più possibile delle
realtà e modalità cognitive degli adulti e dei minori coinvolti.
Bisogna
comunque premettere che questo
tipo di “suggerimenti” ovviamente, sono sempre accolti all'inizio
da inevitabile incredulità da parte del genitore mobbizzato, che
rivendica sempre la validità dello scontro e del cercare di ottenere
“sempre più” di quello che gli viene dato “sempre
meno” più lui lo chiede “sempre più”. Uno dei
punti da chiarire con fermezza, come detto in altri termini
precedentemente, è che non si tratta affatto di “dar ragione”
all'altro genitore, o cedere alle sue richieste e accuse giudiziarie
ed economiche.
Si
tratta ovviamente di sbilanciare un sistema fondato sulla ricorsività
del conflitto.
La
vittoria di Ulisse arriverà, esattamente come dice il mito, dopo che
si sarà riconquistato il proprio figlio a sé stessi e alla
relazione con il padre.
Surse,
e spogliossi de’ suoi cenci Ulisse,
E
sul gran limitare andò d’un salto,
L’arco
tenendo, e la faretra. I ratti
Strali,
onde gravida era, ivi gittossi
Davante
ai piedi, e ai Proci disse: A fine
Questa
difficil prova è già condotta.
Ora
io vedrò, se altro bersaglio, in cui
Nessun
diede sin qui, toccar m’avviene,
E
se me tanto privilegia Apollo.
Così
dicendo, ei dirigea l’amaro
Strale
in Antinoo. Antinoo una leggiadra
Stava
per innalzar coppa di vino
Colma,
a due orecchie, e d’oro; ed alle labbra
Già
l’appressava: nè pensier di morte
Nel
cor gli si volgea.
Chi
avria creduto,
Che
fra cotanti a lieta mensa assisi
Un
sol, quantunque di gran forze, il nero
Fabbricar
gli dovesse ultimo fato?
Nella
gola il trovò col dardo Ulisse,
E
sì colpillo, che dall’altra banda
Pel
collo delicato uscì la punta.
Ei
piegò da una parte, e dalle mani
La
coppa gli cadè: tosto una grossa
Vena
di sangue mandò fuor pel naso;
Percosse
colle piante, e da sè il desco
Respinse;
sparse le vivande a terra;
Ed
i pani imbrattavansi, e le carni.
(Odissea,
Trad. di I. Pindemonte, Libro
Ventiduesimo)
Purtroppo
non è possibile descrivere ora tutte le modalità e le tecniche
utilizzate, soprattutto perché ogni
volta bisogna adattare qualcosa di precedente al
contesto che si ha di fronte, ma sicuramente i risultati ci sembrano
incoraggianti.
Un'altra
serie di tecniche utilizzate, nel caso i rapporti tra i genitori
consentano ancora qualche contatto, anche aggressivo e conflittuale
quanto si vuole, è la riedizione di alcune tecniche di direzione
strategica dei comportamenti, nei rapporti fra il genitore mobbizzato
e quello mobbizzante. Si tratta di riuscire a strutturare
sottilissime forme di “prescrizioni del sintomo”, “diari di
bordo”, “rituali”, prescrizioni strategiche che apparentemente
diano soddisfazione al genitore mobbizzante ma in
realtà ne paralizzino le tattiche.
Ovviamente,
anche qui bisogna studiare a fondo il sistema e capire quale parte
delle comunicazioni e delle relazioni può essere utilizzata in tal
senso: ad alcuni ex coniugi può essere chiesto ad esempio di
indicare con straordinaria precisione i compiti da eseguire in caso
di incontri con i figli, ad al riguardo invece di descrivere con
accuratezza come rapportarsi con i figli quando li si incontra, fino
a tecniche molto più complesse e minuziose, che hanno spesso lo
scopo di imbrigliare anche -già che ci siamo, viene spesso da dire-
l'aggressività del genitore mobbizzato, ansioso di vendette e
vittorie.
Da
questo punto di vista, è infatti
interessante notare come il paradosso che immobilizza il genitore
mobbizzante, modifica anche la percezione che il genitore mobbizzato
ha del problema e del suo essere nel conflitto. Segno anche questo
di come molto probabilmente le psicopatologie in gioco continuano ad
operare comunque e in modo collusivo anche quando genitori non
comunicano e sono lontanissimi dal sentirsi “una coppia”
Non
riteniamo di avere ancora la possibilità di fornire statistiche
realmente convincenti e scientificamente esatti. Sappiamo però di
avere avuto risultati interessanti, e molte volte -soprattutto
allorché il paziente non ha opposto molta resistenza- realmente
incoraggianti.
Esistono
già non
pochi minori che dopo anni di accuse e rifiuti “totali” e
“drastici” (così
almeno
descritti dai loro genitori), sono
lentamente tornati a rapporti accettabili, più o meno accettabili e
pieni, dal genitore alienato.
Non
è
semplicissimo ottenere sempre
questi
risultati, ma noi riteniamo deplorevole non
provarci almeno,
e spingere invece
chi ci consulta ad una guerra dissennata.
Prima
o poi Ulisse -per utilizzare la bellissima metafora individuata dalla
dottoressa Rinaldi dal testo di Zoja- deve tornare a Itaca, e non può
essere proprio
lui che si elimina da solo dalla vita del figlio.
La
tragedia di essere la pallottola utilizzata dal nemico contro sé
stessi deve trovare una soluzione, e anche se questa
soluzione all'inizio appare folle e impraticabile, bisogna cercare di
praticarla.
Se
proprio
dovessimo tirar fuori una percentuale dalla nostra esperienza
clinica, diciamo che nel sessanta-settanta per cento quasi dei casi
abbiamo avuto risultati soddisfacenti, a volte -sia pure più
raramente- anche ottimi. Ed è per questo
che ogni volta ci “riproviamo”.
La
prima volta che abbiamo pensato di standardizzare in un corpus
teorico e operativo questo
approccio “paradossale” (e per noi “zen”) al problema
del genitore “amputato” (per riprendere l'indovinatissima
espressione di G. Benedetti), è stato allorché abbiamo ricevuto una
email da un genitore che avevamo seguito, e che era arrivato a noi da
una città del Nord dopo una ricerca sul Web. Lo avevamo incontrato
pochissime volte, ma evidentemente la cosa aveva
dato i suoi frutti. I nostri consigli -paradossali, e da un certo
punto di vista apparentemente del tutto inattendibili- a base di
“sms” e “email” e “astensioni dagli incontri”, avevano
dato come già altre volte, dei frutti. In quel caso, degli ottimi
frutti, a quello
che ci disse questo
padre,
e ciò ci spinse a ritenere che forse
potevamo
davvero formalizzare un modello più preciso di intervento, e
utilizzarlo con una certa accuratezza e speranza di riuscita.
Quel
padre ci aveva comunicato quello
che era successo con una email, e ci ringraziava per quello
che era successo a seguito dei nostri due o tre incontri, offrendosi
come volontario per aiutarci a risolvere casi analoghi:
da quanto ci aveva
detto
al telefono, era convinto che solo chi ci era passato prima potesse
riuscire a essere
efficace nel trasmettere una tecnica del genere. Per noi è
stata
la prova di come fosse difficile proporre soluzioni
del
genere, come fosse
difficile accettarle, ma come valesse appunto
la pena di tentare con quelle soluzioni apparentemente insensate.
Riteniamo
dunque che la cosa migliore sia chiudere questo
scritto con quelle sue parole:
Dottore
buongiorno.
Faccio
seguito alla telefonata di pocanzi per ribadirLe che la mia
situazione alla fine ha preso una piega positiva. I
miei
tre figli
infatti, pur se prevedibilmente lentamente, hanno ricominciato a
frequentarmi e a dimostrarmi sempre più affetto.
Dal
giorno del verbale di udienza del tribunale che allego, ovvero da
inizio gennaio ***, è stato intrapreso un percorso di mediazione
famigliare (tutt'ora in corso) presso una psicoterapeuta di ****.
I
miei figli hanno dapprima iniziato a rispondere regolarmente alle mie
telefonate, poi a vedermi inizialmente un'ora la settimana, quindi
un'ora a giorni alternati, fino ad arrivare a vederci anche tutti i
giorni (anche se non necessariamente), andare al cinema di tanto in
tanto, cenare almeno una volta la settimana assieme ed addirittura
trascorrere intere giornate a sciare o visitando città.
I
ragazzi dimostrano di volermi bene e di apprezzare i momenti che
trascorriamo assieme, anche se noto che in qualche frangente non sono
ancora completamente rilassati (penso sia normale) come erano una
volta. Ma penso a questo punto sia veramente questione di tempo e di
aver pazienza.
Ieri
sera per la prima volta sono uscito a cena solo con uno
dei tre, il più grande.
Senza il "sostegno" dei
frateli temevo ci fosse
qualche imbarazzo da parte sua,
ma mi sono positivamente
ricreduto e devo ammettere che siamo stati bene, abbiamo
chiacchierato serenamente di tante cose (compresa l'imminente festa
del suo imminente ed importante **° compleanno) e non c'è mai stato
un momento di imbarazzo da parte sua. O almeno non l'ho notato....
Allego
anche il mio ricorso al tribunale in cui, oltre alla richiesta di
consulenza di tipo psico-diagnostica per i
miei
figli che è stato accettato, chiedo anche l'affidamento degli
stessi.
Cosa per il momento non presa in esame, fino alla data della prossima
udienza fissata il 31 *** ***. Ma non era questa la faccenda che mi
premeva di più, bensì la serenità dei
miei figli .
La
ringrazio tantissimo per il preziosissimo aiuto offertomi, per le
eccellenti capacitò professionali ed umane che mi ha dimostrato dal
momento in cui, letteralmente disperato e come ultima spiaggia, mi
ero rivolto a Lei.
Rimango
a Sua completa disposizione nel caso Le servissero ulteriori
delucidazioni in qualunque modo utili per la risoluzione di casi
drammatici analoghi al mio.
Abo
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INDICE
DELL''ARTICOLO
PRESENTE SU PSYCHOMEDIA
Premessa
1.
IL MOBBING IN LETTERATURA SCIENTIFICA
1.1.
Il mobbing in etologia
1.2.
Il mobbing nei gruppi umani
1.2.1.
Il Mobbing nel mondo del lavoro
1.2.2.
Il “mobbing”: altri vocaboli per lo stesso significato; un
vocabolo per altri fenomeni
1.2.3.
Il “Charivari” come forma di “Mobbing sociale”
1.2.4.
“Accadde un'estate”: racconto di un mobbing familiare dal basso
1.3.
La distinzione tra mobbing lavorativo, mobbing genitoriale e altri
mobbing
1.3.1.
Il mobbing come modalità relazionale comune a gruppi animali e umani
1.3.2.
I punti in comune della modalità mobbizzante
1.3.3.
Il “mobbing” nell'uomo come estensione di un programma di
autotutela della prole e del fitness
2.
LA TRANSAZIONE MOBBIZZANTE NELLA COPPIA GENITORIALE TRA
GENITORIALITA' E GIUSTIZIA
2.0
Premessa: l'utilizzo di un nuovo lessico in questo scritto
2.1.
La “comparsa” dell'intruso e l'emergere della transazione
mobbizzante nella coppia genitoriale
2.2.
Il rapporto tra il contenzioso giudiziario e la transazione
mobbizzante
2.3.
Diritto vs. autopoieticita' della coppia
2.4.
Il diritto come autostrada preferenziale per la gestione del
conflitto di coppia
2.5.
Dal caos nel sistema-coppia ai processi di subottimizzazione
2.6.
Il mobbing genitoriale come problema di “diritti sbagliati”
2.7.
La subottimizzzazione come risultato dell'esazione sbagliata di
diritti sbagliati
2.8.
Diritti sbagliati e dis-qualita' emergente dal “sistemaseparazioni”:
il “family chopping”.
2.9.
La serialità decisionale della giustizia in tema di affidi e
l'eliminazione della figura del padre: ipotesi per una lettura
socio-antropologica
2.10.
Il Mobbing genitoriale e la Giustizia Italiana
avv.
Massimiliano Fiorin – Foro di Bologna
3.
LE CARATTERISTICHE DEL MOBBING GENITORIALE
3.1.Definizione
di mobbing genitoriale
3.2.1.
Le tattiche di ostacolo e distruzione del legame genitore-figlio
3.2.1.1.
Gli ostacoli alle frequentazioni e alle comunicazioni
3.2.1.2.
Le tattiche di distruzione dell'espressione sociale e legale della
figura genitoriale
3.2.1.2.1.
Le tattiche extra-giudiziarie
3.2.1.2.2.
Le tattiche giudiziarie
3.2.1.2.2.1.
- La mobbizzazione attraverso l'utilizzo di profili civilistici.
3.2.1.2.2.2.
La mobbizzazione attraverso l'utilizzo di profili penali
3.2.1.2.2.3.
Lo stalking giudiziario
3.3.1.
Tattiche svilimento e distruzione della figura genitoriale
4.
LE CONSEGUENZE DEL MOBBING GENITORIALE E DELLA TRANSAZIONE
MOBBIZZANTE
4.1.0
Premessa: dalla coppia unita all'“Insieme Bi-Genitoriale da
Separazione” a transazione mobbizzante.
4.1.1.
La cosiddetta PAS – Sindrome di Alienazione Genitoriale
4.1.1.2.
Le polemiche relative alla “Alienazione Genitoriale”
4.1.1.3.
Le polemiche sulla PAS e l'Alienazione Parentale come momenti di una
mistificazione
5.
IPOTESI DI GESTIONE CLINICA DEI CONTESTI GENITORIALI MOBIZZANTI E
ALIENANTI
5.1.
La gestione dei contesti a transazione mobbizzante: l'intervento del
Tribunale o di suoi incaricati
5.1.1.
Cenni sulla responsabilità professionale degli operatori dei Servizi
Sociali incaricati dal Giudice
Avv.
Massimiliano Fiorin – Foro di Bologna
5.1.2.
Tentativi di intervento clinico in casi di della alienazione
parentale con interruzione del legame genitori-figli: una premessa
5.1.3.
La cicatrice paterna: frattura e possibilità di ricostruzione del
legame padre figlio nei casi di mobbing genitoriale
dr.
Gaetano Giordano
dr.ssa
Benedetta Rinaldi
dr.
Marco Muffolini
5.1.4.
Il ritorno di Ulisse: strategie di intervento nel mobbing genitoriale
5.1.5.
I risultati e le statistiche
BIBLIOGRAFIA
1Il Centro Studi Separazioni e Affido Minori è formato da colleghi psicologi e medici uniti tra loro da un solo vincolo culturale e di colleganza professionale, privi di qualsiasi aspetto associativo formalizzato.
2Il
paragone -geniale- con il ritorno di Ulisse ad Itaca, nella casa
infestata dai Proci e con il figlio
(e per quanto
riguarda il mito, anche
la moglie) è stato individuato per prima dalla dottoressa
Benedetta Rinaldi, che ha firmato l'articolo precedente.
Ascoltato il resoconto di diversi casi di padri
(e, in numero minore, di madri) deprivati dei figli,
riconobbe subito nella
struttura dell'intervento terapeutico la presenza del mito di
Ulisse, dando un contributo sostanziale e chiarificatore
all'inquadramento teorico delle tecniche già in uso.