L'articolo
che segue affronta un tema abbastanza sentito da molti, e tenta una
lettura socio-antropologica di un dato che per molti è scontato e
bruciante, per altri invece inesatto.
Il
dato in questione è l'eliminazione
della figura del “Padre” dalle famiglie italiane, come avviene
attraverso le sentenze.
Secondo
molti, e chi scrive è fra questi, vi è
una serialità decisionale nelle sentenze di affido dei minori nel
corso dei procedimenti giudiziari, e questa serialità comporta nel
90% circa dei casi il rischio che il padre venga eliminato dalla vita
dei figli, e questi consegnati ipso facto alla madre. Una madre che
con molta facilità può violare le regole di frequentazione tra
padre e figli e non incorrere in alcun provvedimento: nemmeno la
coercizione a eseguire le statuizioni del giudice.
Sicuramente
molti non saranno di questa idea, ma nella nostra prospettiva le
cifre dei Tribunali questo sembrano dire.
Chi
scrive ha dunque tentato una analisi socio-antropologica del perché
di questo stato di cose, ed è giunto ad alcune conclusioni.
La
prima delle quali è che il “Giudice”, inteso come ruolo sociale,
sta cercando di eliminare il “Padre” come figura sociale, perché
ne limita il potere decisionale.
Di
fatto, le “regole” del “Diritto” tendono sempre più a
sovrapporsi -e ad annullare quelle della famiglia- una volta dettate
dal “Pater Familias”, e a dettar esse le regole del nucleo
familiare.
Il
nucleo familiare sta perdendo cioè sempre più la propria
autoreferenzialità, ed il “Giudice” sta scalzando il “Pater
Familias” dal proprio ruolo.
Un'idea,
questa, che per molti sarà -insieme alle altre- del tutto
discutibile, ma che proprio per questo merita appunto di essere
discussa.
Il
testo che segue è tratto, e rielaborato, da un più lungo e
complesso articolo pubblicato pochi giorni fa su Psychomedia.it,
nell'area “Disagio
Familiare Separazione e Affido dei Minori”,
coordinata da Gaetano Giordano, e che si intitola:
Le
patologie degli insiemi familiari da separazione: nuovi spunti
clinici e psicosociologici in tema di Mobbing Genitoriale e recupero
delle relazioni genitoriali amputate (*).
L'articolo
in questione è
stato scritto dal dr. Gaetano GIORDANO, con la collaborazione
dell'avvocato Massimiliano Fiorin per quanto riguarda i capitoli
dedicati agli aspetti giuridici del problema, e la collaborazione dei
dottori Benedetta Rinaldi e Marco Muffolini per quanto riguarda
l'articolo sul mito di Ulisse come chiave per il recupero delle
relazioni paterne.
E'
recuperabile a questo indirizzo:
Nel
testo che segue sono stati lasciati i numeri di identificazione dei
capitoli e dei paragrafi utilizzati nell'articolo completo.
(*)Il concetto di “amputazione genitoriale” -espressione straordinariamente efficace per definire cosa accade veramente ad un bambino “alienato” dal suo genitore, è stato per primo utilizzato da G. Benedetti, che così si esprime:
“Sindrome
da alienazione genitoriale: una patologia della famiglia separata.
Io preferisco chiamarla “di amputazione genitoriale”, perchè dà meglio l’idea di che cosa sia, mi sembra. Si sta discutendo fra gli estensori della prossima edizione del DSM, se riconoscere ‘ufficialmente’ questa sindrome fra i disturbi mentali, di cui il DSM appunto si occupa ...” (Benedetti G. 1911 Benedetti, G., (2012) Sindrome da alienazione genitoriale: una patologia della famiglia separata, http://neuropsic.altervista.org/drupal/?q=node/98
La
serialità decisionale della giustizia in tema di affidi dei minori e
l'eliminazione della figura del padre: ipotesi per una lettura
socio-antropologica
dr.
Gaetano GIORDANO
Come
detto in altri scritti, il contenzioso familiare vede la prevalenza
di “vittorie” della madre nei contenziosi per l'affidamento dei
minori.
Anche
in regime di affido condiviso, infatti, il regime di incontri tra
padre e figli tende a rimanere quello che si ha in regime di affido
esclusivo: un week end ogni quindici giorni e uno o due pomeriggi a
settimana, più qualche periodo alternato durante le feste, è una
forma di affido che recide comunque il legame genitore-figlio, a
prescindere dal termine utilizzato in sentenza).
La
situazione in questione è talmente radicata che, usualmente, una
madre il cui ex partner ottiene di star con il figlio per più giorni
a settimana, percepisce questa come una “sconfitta”
E'
evidente allora un dato.
Se
i contenziosi del lavoro, o i contenziosi amministrativi, mostrassero
da decenni percentuali di vittoria del 90%-95% in una delle due
parti, poniamo i datori di lavoro nei contenziosi giuslavoristici,
sarebbe normale che qualcuno si chiedesse, se la magistratura non
avesse predilezioni per i datori di lavoro rispetto ai dipendenti. Lo
stesso avverrebbe se i contenziosi amministrativi fossero vinti nel
90%-95% dei casi dalle amministrazioni statali o se nelle cause tra
assicurati e società di assicurazioni vincessero queste nel 90%-95%
dei casi.
Nel
contenzioso divorzile vi sono percentuali altissime (90%- 95%
appunto) di vittorie del ruolo materno come genitore “affidatario”
o “collocatario”.
Nelle
attuali sentenze di “condiviso” il genitore collocatario ha, con
i figli, gli stessi tempi di frequentazione, e di fatto le stesse
prerogative, che nel modello di affido esclusivo ha il genitore
affidatario. (Abo Loha e Nestola, 2013) (*)
Ma
ciò non suscita alcuna domanda o perplessità (non certo sulla
adeguatezza della magistratura o la sua trasparenza!): e questo anche
se, come noto, cifre del genere si accompagnano a profondissime
ripercussioni sociologiche, psicologiche, collettive ed individuali.
A
nostro avviso vi è dunque una elusione riguardo al significato di
tale dato, e degli altri indicati (quello, ad esempio, per cui il
risultato del contenzioso giudiziario rischia di essere sempre quello
di un "Family Chopping") e questa elusione secondo noi va
colmata.
Considerando
come la figura frequentemente più amputata fosse di gran lunga
quella del padre, che è il genitore che nella stragrande maggioranza
dei casi perde il contatto con i figli, ci siamo chiesti se ci fosse
una spiegazione al fatto che i contenziosi divorzili fossero quasi
sempre appannaggio di una figura genitoriale, e perché questa figura
fosse quella materna.
In
sintesi, possiamo dire che il sistema giudiziario dovrebbe garantire
un pari trattamento alle parti che vi ricorrono, ma nel caso dei
contenziosi per l'affido dei minori tale aspettativa di giustizia
viene completamente disattesa.
Il
dato non è mai stato oggetto però di alcuna riflessione o ricerca,
né in campo giuridico, né in campo psicologico clinico, né in
campo psichiatrico (o psicologico) -forense, ed è stato dunque
trattato come un dato di cronaca privo di rilevanza scientifica o
sociale.
Il
che è veramente interessante, quanto non emblematico, e -come ogni
“rimozione”, merita una riflessione specifica.
Il fatto è che questo dato -la marcata “preferenza” verso la madre delle sentenze di affido, ma anche tutto ciò che è poi attenzione della giustizia ai “diritti” del padre- è un dato che sicuramente esce fuori dalla norma e dalla normalità, per quanto riguarda un mucchio di punti. E cioè:
-
le aspettative di ottenere giustizia da parte di chi si rivolge alla
legge per tutelare il proprio rapporto con i figli;
-
la sua accettabilità psicologico-clinica (che lo sbilanciamento
delle frequentazioni crei gravi, se non gravissimi, problemi
psicologici e affettivi, è dato acclarato, in letteratura
scientifica);
-
le distorsioni sociali che ha provocato e provoca (i padri separati
come nuovi poveri);
-
le problematiche criminologiche che tende a generare (il fallimento
del progetto genitoriale è, come detto, correlato ad un numero
elevato e significativo di eventi suicidiari e omicidiari).
Siamo
dunque in presenza di un esprimersi paradossale del Diritto e della
Psicologia (nonché della Psicologia e Psichiatria Forense), che
sembrano arrendersi ad eludere (e a colludere con) un dato
incontrovertibile: la Giustizia familiare non riesce ad usare le
regole della Giustizia, le scienze psicologiche correlate al Diritto
non sembrano interessate a modificare il dato, le branche cliniche
vogliono ignorare il fenomeno.
Per
quanto riguarda il Diritto, però, sembra inequivocabile considerare
come l'attitudine monogenitoriale della Giustizia rappresenti, a
nostro avviso, l'ammissione (paradossale!), da parte della Giustizia
stessa, che nessun procedimento giudiziario potrà mai appurare qual
è veramente il genitore migliore e più adeguato cui affidare un
minore.
Altrimenti,
le prove, le relazioni dei Servizi Sociali, le CTU, i dibattimenti e
le “conclusionali”, darebbero ogni volta un risultato diverso e
dunque statistiche meno unilaterali.
D'altra
parte, anche ammettendo che lo strumento giudiziario ha la capacità
di cogliere le realtà della relazione genitoriale e prescrivere le
statuizioni più utili affinché questa meglio possa esprimersi per
il minore, e che questa adeguatezza si esprima puntualmente e con
esattezza negli affidi o nelle collocazioni alla madre, non si vede
perché per raggiungere un risultato così ripetuto nelle
statistiche, sia necessario un percorso così inutilmente lungo e,
soprattutto, conflittivo, qual è di fatto quello giudiziario, dal
momento che tale intervento esita alla fine -se i dati son veritieri
sempre con gli stessi risultati.
Detto
in altri termini, dunque, sia che questo 90%-95% di affidi o
collocamenti (con modalità di affido esclusivo) presso la madre
siano frutto di accertamenti veritieri, che esprimono concretamente
le realtà dei singoli casi, sia che queste cifre esprimano il dato
che il Giudice vede nell'affido alla madre l'unica soluzione
realmente praticabile nei casi specifici, non se ne possono dedurre
che due alternativa.
Entrambi
però basate sull'assunto che il percorso giudiziario è inutile e
controproducente.
Queste
due alternative sono:
I)
l'affido alla madre dovrebbe essere la soluzione praticata per legge
, salvo che particolari, ben definite (con idonei dispositivi
legislativi), e altrettanto ben dimostrate, situazioni dimostrino il
contrario;
II)
bisogna ripensare tutto l'insieme di soluzioni che il nostro contesto
socioculturale offre al problema della conflittualità genitoriale,
individuandolo come problema e soluzioni di natura non giuridica e
non giudiziaria .
È
infatti facilmente dimostrabile come proprio queste statistiche dei
procedimenti giudiziari costituiscano una sorta di regola paradossale
che viola la premessa del diritto e della sua applicazione, secondo
la quale tutti ci aspettiamo di essere uguali di fronte alla legge, e
come questa regola paradossale generi in realtà una situazione
schizofrenizzante o, quanto meno, induttrice di gravi frustrazioni.
L'aspetto
paradossale di tutto ciò si esplicita infatti da diversi punti:
a)
tutta la letteratura scientifica è concorde nell'affermare che
l'accordo tra genitori è la sola via maestra di tutela del minore
coinvolto nella separazione, ma per contro abbiamo una legislatura (e
dunque una cultura) che, a tutela del minore, pone un conflitto tra i
suoi genitori;
b)
il Diritto pone come propria premessa l'assunto che tutti sono uguali
di fronte alla legge, ma un genitore che inizia un percorso
giudiziario volto a risolvere il suo contenzioso genitoriale e/o
coniugale, sa che se padre ha il 90%-95% di possibilità di perdere
il procedimento e se madre di vincere;
c)
il percorso giudiziario per tutelare il minore nasce come garanzia di
equità del Diritto, ma tutti gli strumenti giudiziari utilizzati nel
procedimento di separazione della coppia e di affido minori (ascolto
dei testimoni, valutazione delle prove, CTU, incarico di valutazione
della adeguatezza genitoriale ai Servizi Sociali, ecc.) portano di
fatto sempre alla stessa conclusione: lunghi, tormentati,
estremamente dispendiosi, periodi di grave conflittualità, per
ottenere risultati assolutamente prevedibili e, in quanto tali,
percepiti necessariamente come iniqui;
d)
la Giustizia stessa si disinteressa di rimanere tale, dal momento che
lascia sostanzialmente inalterate le mancate attuazioni delle proprie
statuizioni e rende di fatto premiante, anche se, ovviamente, non
consapevolmente da parte degli operatori di giustizia, il ricorso a
pratiche calunniose e stalkizzanti dei propri procedimenti, quasi
fosse interessata non alla Giustizia in sé ma al trionfo del proprio
essere chiave di soluzione dei conflitti.
Quello
che infatti si attiva nei casi di separazione è in genere un
meccanismo perverso, per il quale il genitore che adisce il giudice
avendo dal 90% al 95% di possibilità di perdere una causa definita
“equa” nelle aspettative con cui percorrerla, è che non può che
aver sbagliato lui ad intraprendere quel percorso.
Alla
percezione di “ingiustizia attesa”, presentata però -sin dalla
sua attesa- come giustizia, si aggiunge allora la percezione che la
“colpa” è stata proprio quella di aver cercato una “giustizia”
di cui si conoscevano con largo anticipo i i probabilissimi esiti.
Vi
è poi la possibilità di utilizzare contro l'altro, in genere il
padre, una serie di meccanismi giudiziari in modo calunnioso e
ostativo al rapporto con i figli, senza che vi sia una reale
punizione di chi compie tale utilizzo o disattende le prescrizioni
del Giudice.
Ciò
implica una grave cascata di problemi, primo fra tutti un effetto
retroattivo in senso causale, che si ha nel passaggio dal
macrosistema al microsistema.
Dal
primo, infatti (il sistema socio-giudiziario) viene trasmessa al
secondo (la coppia che si separa) una informazione (e dunque un
meccanismo) di impari opportunità, che diventa poi operative nelle
regole del microsistema: “Adesso vado io dal giudice e ti faccio
togliere casa e figli!” è una frase che non pochi padri si sono
sentiti rivolgere -con non poca attendibilità- dalle proprie
partner.
Una
frase del genere, detta nella aspettativa di avere il 90% di
possibilità di essere ascoltata o comunque lasciata fare, condiziona
indiscutibilmente i toni e le modalità con cui si esprimerà poi la
conflittualità all'interno della coppia.
Si
rimanda poi ai lavori di Fabio Nestola che -producendo adeguata
documentazione fotografica- dichiara come nei Tribunali esistano
moduli prestampati che indicano la madre come genitore collocatario
(Abo Loha, Nestola, 2013: "Il
principio della bigenitorialità - e la legge n°54 del 2006: diritto
del minore? criticità dei criteri di applicazione"
E
questo anche se nessuno (e ciò è un punto elusivo che acquista
valore di mistificazione) ha mai preso in seria considerazione (non
si conoscono studi in proposito) l'influsso che così il macrosistema
ha sulla conflittualità della coppia.
Abbiamo
tentato di ipotizzare se vi fosse un motivo al perché proprio il
padre fosse -statistiche alla mano- il genitore negletto da una
giustizia che -come detto precedentemente- se operasse con pari
opportunità (ma in terreni nei quali la presenza del contenzioso
giudiziario ha un senso!) dovrebbe di necessità esitare allora in
altre statistiche.
Sicuramente
la modificata percezione del ruolo del padre -percepito sempre come
un possibile “padre-padrone”- quale si è avuta a partire dagli
anni Sessanta, ha giocato un ruolo fondamentale in questo indirizzo
giurisprudenziale.
L'altro
elemento che vi ha concorso deve essere stato di sicuro la
sotterranea consapevolezza -magari elusa da dibattiti e vere e
proprie prese di coscienza, che il procedimento giudiziario non
potesse di sicuro stabilire, attraverso una dinamica così
conflittiva, quale potesse essere il genitore veramente più adeguato
o quello presso cui il figlio deve di fatto vivere e con cui avere
rapporti prevalenti (motivo per cui nelle sentenze si parla di
“genitore collocatario”, neologismo comparso nelle sentenze che
parlano di condiviso, ma che Nestola sostituisce col termine -e col
concetto- di “genitore prevalente”.
Infine,
a nostro avviso deve avere giocato un ruolo fondamentale una nuova
prospettiva che il Diritto si è voluto assegnare nella cultura e nei
costumi contemporanei, un nuovo indirizzo che possiamo intravedere
anche in altri settori sociali (come ad esempio la politica).
Ovviamente,
questa è una lettura assolutamente personale della situazione, e
come tale viene proposta, in assenza di qualsiasi dimostrazione sia
pure solo argomentativa.
Ci
sembra però che il Diritto e la Giustizia siano “sistemi sociali”
che nella gestione dei problemi familiari abbiano utilizzato una
condotta a forbice, e che tale condotta a forbice abbia finito per
generare appunto quella dis-qualità del “Sistema Separazioni”
che definiamo "Family Chopping" [vedasi punto 2.8
dell'articolo pubblicato su Psychomedia.].
Da
una parte sono sistemi che si sono ritenuti idonei a gestire regole
di relazioni -quelle familiari, appunto- nelle quali fino a mezzo
secolo fa (sino all'introduzione del nuovo Diritto di famiglia) nelle
quali fino a quel momento la presenza del Diritto era assolutamente
limitata (entrando comunque altri sistemi sociali, come la religione
e, se vogliamo, la morale, a regolare i rapporti).
Dall'altra
parte, la consapevolezza che tale gestione di regole affettive e
personalissime, dagli equilibri ancor più personali, non poteva
essere gestita attraverso un sistema di regole codificate a priori,
incapace di cogliere la natura di funzioni quali quelle emergenti
dalle realtà affettive, ha generato una serialità decisionale che è
la stessa mostrata (e secondo noi, dimostrata), dalle statistiche di
affido monogenitoriale.
Nel
senso: in teoria, al momento le statistiche ISTAT mostrano che
l'affido condiviso viene applicato in larghissima percentuale, e che
l'affido monogenitoriale risulta nel solo 6% dei casi.
“Il
problema, però” sostiene Fabio Nestola -presidente FENBI e Stati
Generali sulla Giustizia Familiare “è nell’equivoco di fondo sul
quale si basa il dato raccolto dall’ISTAT: il loro strumento di
rilevazione registra cosa c’è scritto sulla sentenza, punto. Non
verifica se alla dicitura condiviso corrispondano tempi di
frequentazione identici all’affido esclusivo. Cosa che avviene
invece puntualmente. Il fatto è che non è un compito dell’ISTAT
valutare se alla parola condiviso corrispondano criteri da affido
monogenitoriale, tutto qui. Ma le modalità di frequentazione sono
molto omogenee, e le condizioni con cui i minori hanno rapporti con i
genitori non hanno sostanzialmente subito modifiche rispetto ai tempi
precedenti l'entrata in vigore della legge 54/06” (Abo Loha,
Nestola, 2013: "IL PRINCIPIO DELLA BIGENITORIALITÀ - E LA LEGGE
n°54 DEL 2006: DIRITTO DEL MINORE? criticità dei criteri di
applicazione" all'indirizzo:
http://www.psychomedia.it/pm/grpind/separ/ABO_LOHA_NESTOLA.pdf)
Si
è mantenuta cioè questa serialità decisionale, orientata a
preferire l'eliminazione o l'emarginazione del padre dalla vita dei
figli (perché di fatto tale è il risultato degli affidi
monogenitoriali alla madre, per coloro che seguono rigidamente le
consuete statuizioni sulla frequentazione padre-figli) in virtù
-sempre nella nostra opinione - di un secolare -o forse millenario-
conflitto psico-socioantropologico tra la figura del “Padre” e
quella del “Giudice”, laddove quest'ultimo – proprio in virtù
della autopoieticità del Diritto, che non tollera territori e ruoli
esclusi alle proprie regole- si volesse definitivamente liberare di
una figura -quella del padre, appunto- che da secoli limitava la sua
possibilità di decidere cosa fosse giusto e cosa no, una volta
superata la soglia di casa del “Pater Familias” (Giordano, 2008).
L'ipotesi
socio-antropologica in questione vagliava l'ipotesi che se fino ai
secoli passati “società” e “famiglia” erano stati territori
divisi con regole forse simili e sicuramente “trasversali”, ma
orientate, applicate, modificate da autorità diverse, col crollo
della “famiglia” avvenuto dopo la prima metà del secolo passato
(all'incirca agli inizi degli anni '70), il “Diritto” aveva
iniziato a impossessarsi delle relazioni familiari e il “Giudice”,
conseguentemente, aveva cominciato a vedere nel “Padre” non più
un omologo di un microcosmo parallelo al suo cosmo, ma un nemico che
ne contrastava l'autorità.
Per
fare un esempio, e a prescindere dalla tutela che ciò implica per i
soggetti coinvolti, si pensi al “nuovo” reato di stalking
applicato anche a fidanzati, amanti, mogli e mariti, così come alle
ipotesi di cui al 282 bis c.p.p. (che la Cassazione ha ritenuto
potersi ravvisare anche in situazioni di separazione e/o di
sopravvenuta interruzione della convivenza.
Non
sfugge qui, poi, che il ruolo del Pater è creare regole e
applicarle, staccando il cordone ombelicale del figlio dalla
fusionalità materna, e immetterlo alla luce del mondo.
La
figura di un Padre che -nella famiglia- “crea” e “impone”
regole a suo arbitrio e comunque in nome del potere del Pater
Familias e non del Diritto, contrasta, da un punto di vista
antropologico e sociale, con quella del magistrato, che si ritiene
interprete di un sistema -il Diritto- che non solo definisce le
proprie regole, ma che definisce da sé anche dove queste regole
vanno ad operare.
Inoltre,
se è il Padre a dettare regole di socializzazione, è evidente che
tale figura primeggia su quella del Giudice, che solo in seconda
istanza diventa istanza figura di riferimento.
Molto
probabilmente proprio intuendo questo confrontarsi dei due sistemi
(“società”, “famiglia” fino a sfiorare lo scontro, Jemolo
utilizzò il termine “lambire” rispetto al rapporto che il
Diritto doveva avere con la famiglia).
La
Madre, che invece incarna la dimensione affettiva e relazionale che
tutti accomuna e com/prende, e che conseguentemente considera “tutti
uguali” i propri figli, può esser vista, in questa logica, come
colei che -dal punto di vista del Giudice- ha il ruolo più
affidabile per recepirne le decisioni, dal momento che non è nel suo
ruolo definire regole non legate al codice operativo del Diritto e
che mettono in discussione sia la autoreferenzialità del Diritto che
l'autorità del Giudice.
Vi
sono qui due aspetti a nostro avviso interessanti.
Il
primo, è che – osservando le cose da questo punto di vista- si può
anche rintracciare una dimensione archetipicamente “edipica” nel
Giudice (sempre come ruolo, ovviamente), (Giordano, 2008) dal momento
che appare regola pressoché costante che è il “padre” il
genitore che viene “allontanato dalla casa materna”: il suo
rapporto con i figli viene poi imbrigliato in regole e orari, mentre
la “madre” viene lasciata libera di strutturare un rapporto molto
più libero e complesso con la prole.
In
definitiva, la madre diventa l'esercente di una famiglia
monogentoriale dalla quale l'uomo è allontanato dalla casa, non vi
può rientrare se non lo vogliono giudice e madre, mentre l'influenza
del padre è praticamente nulla o comunque gravemente ridotta.
Sicuramente
tutto questo segue a secoli nei quali l'autorità del Pater è stata
non solo indiscussa, ma anche violenta e spesso nullificante
qualsiasi individualità gli si opponesse, una sorta di potere
indiscusso criticato e messo in crisi a partire dalla seconda metà
del secolo scorso, ma proprio per questo sembra che a fargli la
guerra siano adesso proprio i figli che hanno preso il potere e,
alleandosi con la “Madre”, stanno cacciando il padre da casa.
A
conferma di tutta questa prospettiva, vi potrebbe essere poi anche il
dato che mentre i padri risultano
quasi sempre
condannati
allorché
non
provvedono al
versamento dell'assegno
di mantenimento,
non
lo stesso si può dire pensando a quante madri riescono ad impedire
le
frequentazioni
genitore-figli,
senza che
ciò implichi alcun risvolto penale.
Ad
abundantiam, bisogna
poi constatare come il trattamento riservato ai padri
separati ha
creato
addirittura una nuova categoria di poveri, ma questo non ha suscitato
alcun ripensamento né tanto
meno interesse: dei
"padri separati" che mangiano alla Caritas, dormono alla
stazione se ne parla solo nei film di comici intelligenti. (Verdone,
2011)
Quello
che appare con una certa frequenza, detto in altri termini, è che
l'allontanamento del padre dalla casa materna, e la sua condanna sono
una norma, mentre norma opposta è che alla madre sia lasciato il
potere sui figli, quasi che il Giudice (sempre inteso come ruolo)
veda in lei una partner che non ne metta in discussione il potere di
applicare regole, mentre identifica nel Padre, e proprio per il suo
ruolo di genitore che avvia alle regole della socializzazione,un
contraltare da eliminare.
Vi
è qui l'altra delle due considerazioni cui si accennava poc'anzi.
L'altro
punto che ci può interessare, nasce dal constatare come il ruolo
della “Madre” sia un ruolo in questo senso anonimizzante, di
fatto come quello del Giudice (dal momento che “La legge è uguale
per tutti, come giustamente deve essere), mentre il ruolo del “Padre”
è quello di individuare regole di socializzazione da trasmettere ai
propri
figli, dunque regole di scoperta della propria
autonomia e di gestione della stessa nello spazio sociale.
Questo
significa che il Padre individua modelli di specificità individuale,
e il Giudice norme coollettive.
Per
la “Madre” ed il “Giudice”, in sostanza, gli individui sono
(giustamente) tutti uguali. Il Padre (nella sua polarità archetipica
positiva), ha invece il ruolo di individuare specificità e autonomia
e conferire ad essa modelli di socializzazione.
Il
Giudice, visto da questo punto di vista, è dunque il dominus delle
regole collettive, il Pater quello delle regole per il singolo
(nucleo, e individuo): e, anche se poi molte regole tendono -o
tendevano- a essere omogenee e uguali, ciò che conta è l'esistenza
di due modelli specifici di regole, e di creazioni di regole, e di
due distinti ruoli per tale creazione.
In
questo momento, si apre dunque un rischio nella nostra cultura, e a
nostro avviso è un rischio già indicato da altri segnali: stiamo
andando verso una confusione tra collettivizzazione e specificità
dei singoli, e tutti sembriamo diversi perché in realtà siamo tutti
uguali e non ce ne accorgiamo.
Ritornando
a quanto stavamo dicendo circa questa lotta tra Giudice e Pater, si
può poi cogliere un altro aspetto interessante di questo punto di
vista, un aspetto che a nostro avviso conferma quanto stiamo dicendo.
Tale
aspetto è nel fatto che sembra esistere, nel “Padre Separato”
(figura che comincia ad avere una identità sociale abbastanza
definita), un atteggiamento speculare a quello del “Giudice”.
Tale atteggiamento speculare è descrivibile nel fatto che il “Padre
Separato” che individua nel “Giudice” (e non in un insieme di
regole sociali e forse antropologiche di cui fa parte) il proprio
nemico, e lotta per contrastarne, limitarne, piegarne il volere.
Tale
atteggiamento speculare è rintracciabile, ad esempio, proprio nella
nascita della legge sull'Affido Condiviso, che, come tutti sanno, è
stata di fatto sponsorizzata da una associazione nata da un padre
separato, il quale ha intessuto forti rapporti con gruppi politici al
fine di vedersi approvata la legge che aveva provveduto a stilare
(probabilmente con l'aiuto di qualche consulente).
Questa
associazione di padri separati (poi divenuta aperta anche alle madri,
che però non sono mai state granché rappresentate) non ha mai
accettato di condividere con le tantissime altre associazioni di
padri separati il progetto di legge che si cercava di far approvare.
Il
fondatore di questa associazione è da sempre il Presidente della
stessa, e non risulta che ci sia mai stato un ricambio in tal senso.
Non
ha alcuna competenza specifica in materie giuridiche e, a quanto si
sa, ha stilato il testo della legge da solo, probabilmente ricorrendo
solo dopo che aveva finito a qualche correzione da parte di
consulenti legali.
La
presenza di professionisti del “Sistema Separazioni” era anzi,
soprattutto nei primi anni, del tutto ostracizzata da questo
“Presidente”.
Le
innumerevoli altre associazioni di padri separati hanno seguito
percorsi analoghi: nascono sempre per iniziativa di un padre separato
che ha da poco iniziato ad avere problemi di contatto con i minori.
L'esordio può essere con l'iscrizione ad una associazione già
esistente o con la fondazione di una nuova ad hoc, evento più raro
del precedente.
Di
solito, nel primo caso, dopo un periodo di frequentazione si avvia
una scissione e si forma una nuova associazione. Le associazioni così
sorte proliferano di fatto sempre più e sembrano più delle famiglie
strettamente patriarcali e con regole ferree, i cui soci / figli
hanno come unica possibilità per esprimere validamente un loro
orientamento, quella di andarsene. Anche se tutte hanno uno statuto
che prevede elezioni a scadenza periodica, su un centinaio e più di
associazioni che nel corso di venti anni si sono avvicendate nel
campo dei padri separati, una sola ha cambiato, una volta, il
Presidente. In tutti gli altri casi il Presidente è lo stesso che ha
fondato l'associazione e, di norma (salvo alcune rarissime eccezioni)
non cambia mai. (Giordano, 2004).
Quasi
tutte le associazioni di genitori separati si sono schierate col
condiviso e hanno condotto una battaglia di supporto alla
associazione che proponeva il “condiviso”, lottando affinché la
legge fosse imposta.
In
sostanza, le associazioni di padre separati sembrano delle “nuove
famiglie” nelle quali il “Presidente” ritrova il ruolo di
“Padre” e tende a contrapporsi al “Giudice” con iniziative
destinate a gestire le regole che il giudice deve utilizzare per
gestire i problemi della famiglia.
La
lotta per il “Condiviso” ha, da questo punto di vista, un aspetto
molto interessante, che supporta la lettura che diamo del conflitto
attuale tra il ruolo sociale del “Giudice” (che tende ad
intromettersi nelle relazioni private per fissarne le regole,
esautorando il padre come figura che abbia una qualche importanza
nella vita dei figli), e quella del “Padre”, che tende,
specularmente, a imporre al Giudice le regole che dovrà utilizzare
nel proprio lavoro per gestire i problemi familiari.
L'aspetto
di cui diciamo è che la “lotta” portata avanti per il
“condiviso” dalle associazioni di genitori separati sembra essere
davvero una lotta speculare al ruolo del giudice, di cui si cerca di
limitare l'invadenza imponendogli le regole gradite ai padri
separati, in questo senso quasi esprimendo una vera e propria
competizione col giudice (competizione che, come dall'articolo già
citato, si osserva -nelle associazioni di genitori separati- anche ad
altri livelli e verso quasi tutte le figure professionali che
intervengono nei procedimenti giudiziari).
L'aspetto
curioso di tale lotta per il condiviso è che queste associazioni
hanno solo cercato di “imporre” al Giudice una legge che
indicasse al Giudice come comportrsi nei procedimenti di separazione,
e -a conti fatti- hanno preferito ottenere la vittoria del
“Condiviso” piuttosto che porsi, come punto predominante, quello
di far lievitare e divenir determinante una cultura della Mediazione
(prospettando ad esempio percorsi mediativi prima dell'ingresso in
Tribunale, ipotesi in studio solo adesso), che portasse anche ad una
degiuridicizzazione del contenzioso separativo (che potrebbe essere
pensato anche come percorso gestito, in caso di conflitto, nello
studio dello psichiatra o dello psicoterapeuta).
In
sintesi, anche le associazioni di padri
separati hanno preferito lottare per ottener che le loro idee
trionfassero in Tribunale, ma non lottato per uscire dal Tribunale.
Di
parere però diverso è ad esempio Fabio Nestola, che così esprime
il proprio
punto di vista:
“La
mediazione era presente, nero su bianco, già 10 anni fa, a partire
dalle proposte di legge del 2004. Poi è stata cassata da Paniz prima
di arrivare alla versione definitiva del 2006, ma non certo per
volere delle associazioni. Il proposito, inoltre, di portare fuori
dal tribunale ciò che non è materia da tribunale, è un pilastro di
diverse associazioni. Non è corretto generalizzare [In riferimento proprio a questo articolo e a quanto poc'anzi espresso - N.d.R.]. Alcuni, è vero,
hanno una visione limitata ai “diritti dei padri”, ma altri hanno
spostato da anni l’ottica in direzione dei diritti negati della
prole.”
In
sostanza, per
quanto ci riguarda, stiamo dicendo che i padri
separati -riconosciutisi e riconosciuti in un gruppo sociale in
qualche modo omogeneo hanno tentato di contrapporsi simmetricamente
alla figura del “Giudice”, propugnando una legge che costringesse
il “Giudice” ad utilizzare le loro regole, ma non hanno mai
tentato di sviluppare percorsi culturali estranei alla stanza del
“Giudice” ed al suo ruolo.
Non
hanno cioè messo minimamente discussione le radici sociali e
antropologiche di questo sistema di gestione del conflitto, ma hanno
cercato di rispondere con un “legge” ad un'altra legge, ma non di
modificare le premesse per e attraverso cui si genera la gestione del
conflitto coniugale.
Le
soluzioni a cui sono giunti i “Padri Separati” sembrano implicare
cioè che la prospettiva di fondo che ne ha orientato l'emergere
nasce da una visione speculare e simmetrica prossima ad un
contrapporsi (e dunque ad un conflitto), che non un tentativo di
superare le alternative che portano a quel conflitto (come ad esempio
sarebbe accaduto sviluppando la prospettiva di degiuridicizzare del
tutto il percorso di separazione, almeno fino al momento della presa
d'atto da parte di un giudice -o anche di un notaio- delle condizioni
di separazione).
Da
questo punto di vista, possiamo infatti dire che lo stesso “Affido
Condiviso” appare essere l'altra faccia di una medaglia che assegna
ad una regola anonimizzante e omologante, algebrizzante si potrebbe
dire, la regolazione di qualcosa -l'educazione dei figli e i loro
rapporti con i genitori- che dovrebbe essere il risultato di una
elaborazione ogni volta diversa.
Con
la lotta per il “Condiviso”, in sintesi, il “Padre Separato”ha
cercato di contrapporsi al “Giudice” mutuandone radici e modelli,
ma non superandone la logica di regole uniformi e uniformizzanti.
Forse
è solo un caso, ma le modalità di rapporto genitori-figli, previste
dall'Affido Condiviso tolgono -in nome di una impossibile (a nostro
avviso) parità di rapporti (che diventa solo aritmetica dei giorni)
– specificità e caratterizzazione a ogni legame genitore-figlio.
A
nostro avviso, la soluzione è invece in tutt'altra logica: percorsi
-anche lunghi, e nel caso psicoterapici- di elaborazione del
conflitto in assenza dei quali si passa a provvedimenti giudiziari
sanzionatori, ma che portino ad un emergere specifico delle regole
della singola coppia.
Per
tornare indietro e riprendere dall'inizio il discorso di questo
antagonismo tra Giudice e Padre, possiamo dire che tale situazione ci
sembra essere -tanto per restare in tema- proprio quella di una forma
di mobbing reciproco, nel quale:
-
Il “Giudice” (come ruolo socio-antropologico) tenta di
estromettere il “Padre” (o, anche, il “Genitore”) dalla
gestione della sua “prole”; mentre invece, a sua volta:
-
il “Padre” (o, anche, il “Genitore”) tenta di estromettere il
“Giudice” dalla gestione del suo “lavoro”, condizionandolo
nel come operare attraverso le proprie “sentenze”.
Ciò
implica -nella nostra lettura- un dato abbastanza interessante quanto
importante: nella dinamica in questione si ritrova una transazione
mobbizzante come strumento di difesa e gestione da interferenze terza
del frutto del proprio operare nel mondo. In definitiva, i due ruoli
sociali (il “Padre” ed il “Giudice” ) lottano per escludersi
a vicenda dalla gestione di regole fondamentali per l'esistere di
entrambi.
A
nostro avviso, comunque, il risultato che ci si doveva aspettare da
un simile contrapporsi è esattamente quello arrivato: la legge sul
“Condiviso” è passata, ma non è stata applicata.
Invece
di una soluzione del problema, si è cioè generato solo un nuovo
problema, che altro non è che una ulteriore evoluzione del vecchio
conflitto fra le figure del “Giudice” (che non applica la legge
imposta dai padri separati), e quella del “Padre” (che non
riconosce al Giudice l'autorità per dettar regole alle relazioni
padre-figlio).
Da
questo punto di vista, si potrebbe addirittura sostenere che si
tratta del conflitto tra due figure autoritarie e maschili che
lottano edipicamente per il possesso della “Madre” o, se la si
vuol vedere da un altro punto di vista, per poter imporre ciascuno il
proprio potere all'altro proprio in tema di rapporti con i figli.
A
sostegno di questa ipotesi abbiamo due dati, a nostro avviso
abbastanza dirimenti: la pressoché totale assenza di punibilità dei
casi di “mobbing genitoriale”, e il fatto che l'elusione degli
obblighi di frequentazione genitore-figli stabiliti dal giudici non
sono considerati atti lesivi della integrità psicofisica del minore
-come la letteratura scientifica di fatto li ritiene- ma elusione
alle disposizioni del giudice e punite solo se dolose.
Al
momento, la legge n.54/2006 prevede effettivamente una possibilità
di risarcimento del minore o dell'altro genitore in caso di
inadempienze rispetto alle statuizioni giudiziarie, così come
prevede una “sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75
euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende”,
ma tali provvedimenti risultano scarsamente applicati e comunque è
sempre difficile dimostrare la sussistenza degli estremi per la loro
applicazione.
Come
noto, poi, e come diversi casi di cronaca dimostrano, la applicazione
di un dispositivo giudiziario relativo alle frequentazioni
genitore-figli è di fatto inapplicabile in caso di rifiuto del
minore, quale che sia la motivazione di tale rifiuto.
Il
tentativo di eseguire la sentenza con l'aiuto della Forza Pubblica è
percepito come violazione di diritti fondamentali del minore (come
recenti casi di cronaca dimostrano), mentre la Cassazione ha
recentemente espresso la convinzione che la cosiddetta Sindrome di
Alienazione Genitoriale non debba essere utilizzata per dirimere
problemi di interruzione di frequentazioni e contatti genitore-figli,
dal momento che -a dire della Suprema Corte- si tratta di una
patologia non ancora accettata dal consesso scientifico.
Discuteremo
oltre tale problematica, passando ora ad esaminare il dato più
rilevante a illustrazione e -a nostro avviso conferma- di quanto sino
ad ora espresso.
Tale
dato è quello relativo alla punibilità del genitore che impedisce
all'altro genitore di avere col proprio figlio i contatti stabiliti
dal giudice.
Il
profilo penale relativo a tali comportamenti è quello della mancata
esecuzione dolosa delle disposizioni di un Giudice:
Articolo
388. Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice.
Chiunque, per sottrarsi all’adempimento degli obblighi civili
nascenti da una sentenza di condanna, o dei quali è in corso
l’accertamento dinanzi l’Autorità giudiziaria, compie, sui
propri o sugli altrui beni, atti simulati o fraudolenti, o commette
allo stesso scopo altri fatti fraudolenti, è punito, qualora non
ottemperi alla ingiunzione di eseguire la sentenza, con la reclusione
fino a tre anni o con la multa da lire duecentomila a due milioni.
E'
allora evidente che il bene tutelato non sono né la genitorialità
né il diritto di un minore ad avere stabili e significative
relazioni con entrambi i propri genitori, ma è l'autorità del
magistrato, autorità che evidentemente sovrasta per importanza i
diritti dei genitori e quelli dei figli ad avere stabilità e
continuità di rapporti.
Per
quanto ci riguarda, è qui una delle dimostrazioni che la tendenza
del Diritto e quella della Giustizia, in tema di famiglia e rapporti
genitoriali, è quella di sostituire figure, ruoli, e regole della
famiglia con le proprie figure, i propri ruoli, le proprie regole.
Se
così non fosse, infatti, impedire ad un figlio di aveva normali
contatti con il proprio padre o la propria madre verrebbe considerato
una lesione ai suoi diritti (e a quelli dei suoi genitori) e non
certo all'autorità del Giudice che ha disposto le regole. E' qui, in
sostanza, che vi è la prova di come il “Giudice” nella nostra
cultura stia cercando di diventare anche “capo-famiglia” e non
semplice arbitro e garante di controversie individuali.
Far
rientrare i comportamenti di ostacolo alle frequentazioni
genitore-figli nella fattispecie della mancata esecuzione dolosa
delle disposizioni di un Giudice, indica con grande chiarezza che per
il Diritto e la Giustizia l'autorità dei genitori, i loro diritti, i
diritti dei figli ad avere regolari relazioni con i propri genitori e
dunque una crescita stabile nell'ambito di relazioni stabili e
significative, hanno solo un'importanza secondaria e, comunque, al
cospetto dell'autorità del Giudice, devono oscurarsi.
Conseguentemente,
come vedremo nel paragrafo seguente, si ha l'emergere di uno dei
problemi più significativi e importanti relativo ai sistemi
para-familiari a transazione mobbizzante: il mobbing genitoriale non
viene punito che molto raramente. Il che implica però un dato molto
significativo: il Diritto e la Giustizia, dopo aver voluto “occupare”
la famiglia con le proprie regole e le proprie figure (giudici,
consulenti, assistenti sociali, ecc.), non riescono a gestire
un'“isola” così lontana dalla propria realtà, e riescono solo a
creare contesti che tendono ad implodere con regole e modalità tutte
paradossali.
Una
delle chiavi operative più importanti della transazione mobbizzante
nei sistemi para-familiari che germinano in seguito all'immersione di
una coppia in separazione nella conflittualità giudiziaria, è
infatti l'uso della Giustizia per impedire alla Giustizia di gestire
la famiglia.
Da
questo punto di vista, è infatti abbastanza interessante notare come
una delle tattiche più frequenti di mobbizzazione è proprio il
ricorso fraudolento, o comunque eminentemente vendicativo e
ritorsivo, quando non calunnioso, allo strumento giudiziario
-potendosi arrivare a quello che è stato con efficacia definito
“stalking giudiziario”- il quale paralizza o devia del tutto
l'esecuzione dei dispositivi giudiziari già espressi dal Tribunale.
Il
c.d. “stalking giudiziario” appare dunque essere una strategia
assolutamente perversamente paradossale, e, da questo punto di vista,
quasi una rilettura “diabolica” di alcune strategie terapeutiche
fondate sul paradosso di esasperare il sintomo anziché
contrapporcisi.
Ciò,
d'altra parte, rende però ancor più evidente un dato: la Giustizia
si lascia utilizzare contro sé stessa pur di rimanere a dettar le
regole della vita dei genitori.