Informatico, è Consulente del Centro Studi Separazioni e Affido Minori per i contenuti informatici e multimediali.
Laureatosi con una tesi dal titolo “Vedere come pratica sociale: analisi e discussione di un articolo scientifico” per la Cattedra di Tecnologie per la collaborazione e la formazione, è l'esperto che analizza e studia i video e i documenti multimediali che arrivano al Centro Studi.
La sua collaborazione è stata determinante per risolvere diversi casi -come ad esempio alcuni di “falsi abusi” - nei quali i video e gli audio forniti in realtà rivelavano informazioni sfuggite alle prime, in alcuni casi ufficiali, non approfondite analisi.
Specialista in analisi delle comunicazioni, ha scritto per questo blog un articolo dal titolo e dal contenuto illuminanti.
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CENTRO STUDI SEPARAZIONI E AFFIDO MINORI
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Il
caso mediatico della settimana è senza dubbio quello del bambino di
Cittadella, in provincia di Padova, presentato al “Grande Pubblico”
come “bambino conteso”.
Perché
i media hanno scelto di dare grande risalto a questa storia? Eppure
ogni giorno ci sono centinaia di storie difficili nel nostro paese
che vengono completamente ignorate.
Vorrei
partire da quello che ai miei occhi appare come un dato di fatto, un
presupposto semplice sul quale vorrei coinvolgervi: la logica
dell’informazione in Italia.
Quella
che comunemente chiamiamo “informazione” non può e non deve
essere confusa con il concetto - a sua volta illusorio - di realtà:
l’informazione infatti è la narrazione di un evento ritenuto
significativo da colui che lo racconta, attraverso una personale
categorizzazione della propria percezione. Questo è quello che
facciamo ogni volta che comunichiamo, dal racconto ad un amico
sull'ultima partita di calcio, a quando cerchiamo di essere
“assolutamente obiettivi”.
La
cosa si complica ulteriormente se il nostro mestiere è quello di
raccontare ad un “utente” il vissuto di una persona (o gruppo di
persone), attraverso un mezzo di comunicazione di massa.
Il
nostro modo di vivere sempre più “virtualmente sociale”, negli
anni è stato ulteriormente rinforzato prima attraverso la
fascinazione televisiva, che porta illusoriamente il mondo esterno
nel proprio salotto, e poi tramite la rete, il nostro salotto nel
mondo esterno.
Questa rapida trasformazione della fruizione
dell’informazione in termini di quantità e qualità, ha modificato
profondamente l’utilizzo dei media da parte dell’utenza (tutti
noi).
Oggi siamo abituati a farci un’idea dei contenuti leggendo i
titoli e questi ultimi più saranno attraenti, tanto più porteranno
profitto a chi li produce.
Quelle
emozioni che ricerchiamo sempre di più per vie traverse, quelle che
possiamo maggiormente controllare e sperimentare in pillole, nelle
quali possiamo specchiarci a distanza e che, con un click sul mouse o
telecomando, possiamo evitare. Questo chiaramente chi lavora nella
comunicazione lo sa e lo mette in pratica cercando una collusione con
l’utente, aderendo a quella che nel tempo l’utente stesso,
attraverso la fruizione, ha manifestato come domanda.
A
questo punto la diade Utente-Media per raggiungere il soddisfacimento
dei propri obiettivi (come già descritto, sperimentazione di
emozioni e rispecchiamento da una parte e profitto dell’altra) ha
bisogno di un’ulteriore collusione: quella con l’attore del
“fatto” della notizia emozionale il quale, a sua volta - e qui
torniamo all’incipit di questo articolo - può soddisfare il suo
bisogno di esposizione mediatica, mezzo necessario al conseguimento
prima del “consenso popolare”, espresso nei termini emotivi del
rispecchiamento, e poi dell’alterazione della realtà, utile ai
propri scopi.
Nel caso in oggetto è la possibilità di “contendere”
il bambino nonostante una sentenza del tribunale che, di fatto,
glielo impedirebbe.
Ma
perché i media si sono “scatenati” su questo caso piuttosto che
su un altro?
I
siti internet e la televisione sono accumunati da un elemento:
l’immagine e l’audio.
La
presenza di un video “vero”, realizzato addirittura in presa
diretta dall’attore in causa, è un’occasione imperdibile per chi
deve realizzare quanto abbiamo appena descritto. La sensazione di
“vivere in prima persona” l’accaduto è fortissima proprio
grazie alla sua natura “amatoriale”.
La confusione, l’angoscia
non ha bisogno di essere descritta all’utente, gli vengono fatte
“vivere” con le immagini e l’audio. Siamo lì(?).
Le
immagini e l’audio mostrano e nascondono: sono mosse, confuse e
rese ulteriormente spaventose dall'oscuramento dei volti e dai
numerosi “bip” (attuato prima per la privacy e poi dimenticato
quando si fanno nomi, cognomi e indicazioni sulle città di
residenza).
Le
urla della zia del bambino – strazianti - raccontano "tutto". Un tutto che non da scampo alle nostre consapevolezze e al nostro bisogno di "andare oltre".
E cioè che tutto quello che ci sia da capire e da vedere sia all'interno di quel video, perché tutto quello che conta è in quelle urla e in quelle immagini mosse.
Sparisce così qualsiasi domanda o
interrogativo sul perché sia successo quello che si vede e ...quello che (non) si vede.
Il video diventa così un mondo "totale" fascinante e ipnotizzante.
E la nostra "cultura" crea quindi nuovi e attualissimi Mesmer -gli strateghi del consenso e dell'illusione collusiva massmediatica- che fascinano senza scampo un pubblico di nuovi e sempre più "felici" ipnotizzati.
Marco Muffolini
Marco Muffolini