21 maggio 2006

L’assegnazione della casa familiare dipende da esigenze oggettive dei figli

Un ottimo intervento dell'avvocato Max Fiorin di Bologna in materia di assegnazione della casa coniugale. (http://www.studiofiorin.it/).

Nelle sue note, lo studio mette in rilievo l'importanza sociale del problema, andando ad analizzare il coordinamento con la nuova normativa sull'affido condiviso.



Una sentenza della prima Sezione della Suprema Corte (Cass. 20 gennaio 2006, n. 1198 [PDF]) ci consente di fare il punto su un aspetto tra i più delicati della separazione coniugale. E' indubbio che, tra i beni patrimoniali coinvolti nelle crisi delle famiglie, la casa occupi quasi sempre una posizione centrale. Oltretutto, nel nostro Paese il fenomeno è particolarmente accentuato, dal momento che per gli Italiani la proprietà dell'abitazione in cui si vive è un obiettivo di vita molto più avvertito e più frequentemente raggiunto di quanto non avvenga altrove.

Dunque, l’assegnazione giudiziale della casa coniugale in sede di separazione è un provvedimento di decisiva importanza, che riveste anche una crescente rilevanza socio-economica, a nostro avviso non ancora abbastanza indagata. E' già ampiamente osservabile che, per ragioni tanto evidenti quanto poco nobili, nel prossimo periodo i media nazionali parleranno sempre meno di declino della Nazione, di casalinghe che non arrivano a fare la spesa a fine mese, di bambini lasciati senza latte nella quarta settimana, ed altri consimili scenari ossianeschi. Quindi, è probabile che anche il problema in esame continuerà a rimanere nell'ombra.

Tuttavia, andrebbe tenuto presente che il fenomeno della separazione coniugale di massa comporta che in Italia, in migliaia di casi ogni anno, si verifica l'immediata ed irrevocabile perdita di un primario bene vitale a carico di un cittadino (il padre nell’85% circa dei casi) che non dispone di soluzioni alternative agevoli – considerati i notevoli costi delle abitazioni e degli affitti – e che spesso viene anche penalizzato nei suoi diritti di proprietario.

Questo fenomeno a nostro avviso comincia ad essere preoccupante per la coesione stessa del tessuto sociale, visto che sempre più sociologi ed economisti si trovano costretti ad ammettere che tra i “nuovi poveri” e gli emarginati che si aggirano per le nostre città, specialmente nei grandi centri urbani, i padri separati sono ormai una categoria in evidenza. Inoltre, è intuitivo che il forzato sdoppiamento delle abitazioni di una crescente massa di ex-nuclei familiari, che vede come inevitabile corollario un raddoppio di costi per le utenze domestiche, per gli arredamenti, per i consumi quotidiani, e così via, alla lunga comporta anche una dispersione di risorse ed una crescita di prezzi che, specie in periodi di recessione, incide in modo tutt'altro che virtuoso sulle condizioni economiche generali.

Ma ora il problema si sta riproponendo anche sul piano strettamente giuridico, dal momento che il nuovo art. 155 quater cod. civ., introdotto dalla legge n. 54/2006 sull’affido condiviso, ha fatto cadere il muro dell’ipocrisia riguardo al fatto che l’assegnazione della casa coniugale dovesse tenere conto soltanto delle esigenze dei figli, considerando quasi irrilevanti i rapporti economici tra i genitori che avevano acquistato o preso in locazione il bene.

L'art. 155 quater, infatti, oltre a precisare che l’interesse dei figli deve essere valutato “prioritariamente”, e quindi non in modo esclusivo, ha espressamente aggiunto che devono essere tenuti in considerazione anche i predetti rapporti economici tra i genitori e il titolo di proprietà. La norma si è inoltre premurata di precisare che il diritto di godimento del coniuge separato sull’abitazione viene meno in caso di mancato utilizzo stabile del bene, così come di nuove nozze o di nuova convivenza more uxorio, e che l’eventuale cambiamento di residenza dell’assegnatario può comportare la revisione delle condizioni di separazione anche sul piano economico. Queste specificazioni, a nostro avviso, di per sé la dicono assai lunga sugli abusi ai quali la prassi dei provvedimenti di assegnazione aveva dato luogo nel corso degli anni.

Ben venga dunque questa sentenza della Cassazione che, pur essendo tutt’altro che rivoluzionaria, per il fatto stesso di aver accolto il ricorso proposto da un padre separato ci dimostra che, su questo problema, orientamenti contrari ai principi generali ricorrono ancora di frequente nelle decisioni di merito.

Il concetto di fondo ribadito dalla Suprema Corte è che l’assegnazione della casa coniugale al genitore affidatario dipende in primo luogo dall’esigenza di mantenere fermo il più possibile l’habitat domestico nel quale i figli erano cresciuti prima della separazione. Inoltre, tale assegnazione viene meno nel momento in cui i figli acquistano l’autosufficienza economica, ovvero rimangono dipendenti dai genitori senza più ragioni oggettive. Devono dunque applicarsi, anche rispetto a detta assegnazione immobiliare, i criteri già invalsi per la cessazione dell’assegno di mantenimento.

Nella fattispecie, al contrario, la vicenda di merito aveva visto la Corte d’Appello di Bologna confermare l’assegnazione alla moglie della casa di proprietà comune dei coniugi, per quanto non si trattasse dell’abitazione nella quale la figlia era cresciuta prima della separazione, e nonostante che la figlia stessa – omai maggiorenne – fosse diventata economicamente autonoma, pur continuando a convivere con la madre. La Cassazione ha dunque rinviato ad altra sezione della Corte, anche per una nuova determinazione dell’assegno di divorzio, che la sentenza cassata non aveva riconosciuto alla moglie proprio in considerazione dell’assegnazione della casa.

Si tratta pertanto di una sentenza che ci consente di ribadire alcuni punti fermi: in primo luogo, che il provvedimento di assegnazione è funzionale alle sole esigenze dei figli, e conferisce al coniuge convivente con essi un diritto di godimento meramente accessorio, che ora con il nuovo art. 155 quater è anche trascrivibile per l’opponibilità ai terzi. Come dicevamo, tale diritto è strettamente condizionato da un’esigenza della prole a carattere oggettivo, e la cui individuazione non è affidata alla sensibilità del giudice.

Dunque, in primo luogo, non deve mai essere disposta l’assegnazione della casa quando la coppia è senza figli (e questo dovrebbe essere più tenuto presente dalla giurisprudenza di merito, che invece – almeno in pendenza della causa di separazione – tende a perpetuare il criterio anche in assenza di prole, per evidenti finalità assistenziali nei confronti del coniuge asseritamente più debole, che poi, di default, è da individuarsi nella moglie).

In secondo luogo, l’interesse tutelato della prole è unicamente quello alla permanenza nell’habitat domestico nel quale si è stati cresciuti prima della crisi coniugale, e non quello di convivere con il genitore affidatario in una abitazione purchessia. Ne consegue pertanto, del tutto coerentemente, che il diritto di assegnazione non si trasferisce automaticamente assieme all'affidatario, fermo restando in linea di principio il diritto di quest'ultimo a cambiare residenza. E in ogni caso, l’assegnazione dell’abitazione familiare al genitore convivente deve cessare quando – una volta raggiunta l’indipendenza economica dei figli ovvero una volta che sono venute meno le ragioni oggettive perché essi continuino a dipendere dai genitori – non può più essere riconosciuto né ai figli né di conseguenza al genitore già affidatario un interesse protetto a permanere oltre nella casa ormai ex-familiare.

Salvo ovviamente che la casa in questione non sia di sua esclusiva proprietà, o che l’ex-coniuge goda di un autonomo titolo di detenzione della stessa. Anzi, a nostro avviso deve deve senz’altro ritenersi che, cessate le ragioni dell’assegnazione, venga automaticamente meno anche il diritto di succedere al coniuge ex-locatario, previsto dall’art. 6 della legge n. 392 del 1978.

La soluzione ribadita dalla Cassazione è dunque funzionale ad un sistema più equilibrato, sulla scia di quanto il legislatore ha cercato di disporre per mezzo del nuovo art. 155 quater cod. civ. Quest’ultimo, peraltro, in virtù dell’art. 4 della legge n. 54/2006 dovrebbe diventare norma generale di riferimento anche in caso di divorzio, e quindi valere anche come criterio interpretativo dell’art. 6, comma 6°, della legge n. 898 del 1970 sullo scioglimento del matrimonio.

In futuro dunque dovrebbe divenire più difficile che le esigenze di tutela della prole nella separazione diventino un mezzo surrettizio di tutela abitativa nei confronti del “coniuge più debole”: la posizione economica di quest’ultimo dovrebbe trovare già sufficiente tutela nel diritto all’assistenza materiale da parte del coniuge e nel diritto agli alimenti, nonché nelle norme sullo scioglimento dell’eventuale comunione legale, e soprattutto – in caso di definitiva cessazione del matrimonio civile – nell’art. 5 della citata legge n. 898 che determina i criteri di determinazione dell’assegno di divorzio. In questi ultimi casi la tutela del coniuge più debole (diciamo pure della moglie) è condizionata dalla sussistenza di fattori oggettivi, quali soprattutto la pregressa partecipazione alla vita familiare, nonché la oggettività delle ragioni che impediscano alla moglie stessa di conservare un tenore di vita compatibile, anche se – come precisato dalla stessa giurisprudenza – non necessariamente identico a quello goduto in costanza di matrimonio.

In altri termini, l’entrata in vigore delle nuove norme sull’affidamento condiviso dovrebbero avere reso ancor meno conforme ai principi generali il fatto che il matrimonio e la maternità possano di per sé costituire una “rendita vitalizia” a favore della donna, e a carico del coniuge maschio, anche successivamente alla separazione e allo scioglimento del vincolo civile. In quest’ottica, la sospirata approvazione della legge 54/2006 avrebbe rappresentato anche un’ottima occasione per riformare gli ultimi due comma dell’art. 5 della legge n. 898 sul divorzio, che continuano a disporre che l’assegno di divorzio e la tutela sanitaria cessino automaticamente soltanto quando il nuovo coniuge “passa a nuove nozze”.

Infatti, in primo luogo queste ultime norme ora non sono più coordinate con la nuova legge sull’affido condiviso, che al contrario si è fatta carico dei notevoli abusi morali e patrimoniali ai quali aveva dato luogo il sempre più diffuso costume delle convivenze more uxorio da parte dei coniugi separati o divorziati. Ma a parte questo, è del tutto evidente che il criterio della tutela assistenziale “fino a nuove nozze” risponde alla mentalità tradizionale secondo la quale il matrimonio – come del resto vuole l’etimologia della parola – ha una funzione di “tutela della madre” (e della donna in genere). Tale tutela, una volta legittimato il divorzio civile, nelle intenzioni del legislatore del 1970 avrebbe comunque dovuto trasferirsi da un marito all’altro.

Inutile precisare che una simile concezione pare del tutto contraria alla moderna mentalità sul ruolo della donna nella società. Eppure, chissà perché, in sede politica non si sono mai registrate particolari pressioni affinché simili residui della mentalità tradizionale venissero eliminati dal nostro ordinamento. Anzi, le notevoli resistenze che tuttora si registrano rispetto alla nuova legge sull’affidamento condiviso dimostrano che una funzione assistenziale delle assegnazioni abitative e pecuniarie a favore della ex-coniuge affidataria continua ad essere vista con un certo favore, anche da parte delle più accese fautrici delle “pari opportunità”.

Sono dunque assai opportune sentenze chiarificatrici come quella in commento, nella speranza che esse possano favorire anche un cambiamento di mentalità da parte dei giudici di merito, verso una visione meno “assistenzialista” delle dazioni patrimoniali imposte a carico maschile dal fenomeno di massa delle separazioni e dei divorzi. Specialmente in presenza di figli, il cui “interesse preminente” altrimenti continuerà ad essere interpretato in modo strumentale, dai protagonisti della crisi familiare così come dagli operatori. (M.F. 19.5.06)

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