16 maggio 2013

Mobbing Genitoriale: ipotesi di interventi psicoterapici per il recupero delle relazioni genitoriali amputate in corso di mobbing genitoriale(*)


L'articolo che segue illustra le strategie cliniche psicoterapiche che utilizziamo per tentare il recupero delle relazioni genitoriali amputate (*) in caso di cosiddetta “PAS”.
Questo articolo è composto da alcuni capitoli di un articolo pubblicato da pochissimi giorni su Psychomedia.it, nell'area “Disagio Familiare Separazione e Affido dei Minori”, coordinata da Gaetano Giordano.


L'articolo pubblicato su Psychomedia si intitola:
Le patologie degli insiemi familiari da separazione: nuovi spunti clinici e psicosociologici in tema di Mobbing Genitoriale e recupero delle relazioni genitoriali amputate (*).
E' stato scritto dal dr. Gaetano GIORDANO, con la collaborazione dell'avvocato Massimiliano Fiorin per quanto riguarda i capitoli dedicati agli aspetti giuridici del problema, e la collaborazione dei dottori Benedetta Rinaldi e Marco Muffolini per quanto riguarda l'articolo sul mito di Ulisse come chiave per il recupero delle relazioni paterne.
E' recuperabile a questo indirizzo:
Nel testo che segue sono stati lasciati i numeri di identificazione dei capitoli e dei paragrafi utilizzati nell'articolo completo.


(*)Il concetto di “amputazione genitoriale” -espressione straordinariamente efficace per definire cosa accade veramente ad un bambino “alienato” dal suo genitore, è stato per primo utilizzato da G. Benedetti, che così si esprime: 
Sindrome da alienazione genitoriale: una patologia della famiglia separata.
	Io preferisco chiamarla “di amputazione genitoriale”, perchè dà meglio l’idea di che cosa sia, mi sembra. Si sta discutendo fra gli estensori della prossima edizione del DSM, se riconoscere ‘ufficialmente’ questa sindrome fra i disturbi mentali, di cui il DSM appunto si occupa ...” (Benedetti G. 1911 Benedetti, G., (2012) Sindrome da alienazione genitoriale: una patologia della famiglia separata, 
http://neuropsic.altervista.org/drupal/?q=node/98





Mobbing Genitoriale: ipotesi di interventi psicoterapici per il recupero delle relazioni genitoriali amputate in corso di mobbing genitoriale


Premessa 
Questo “articolo”, la cui lunghezza in realtà farebbe pensare di più ad un libro,  nasce dalle esperienze del Centro Studi Separazioni e Affido Minori, di Roma.
Il Centro Studi  Separazioni e Affido Minori1 si occupa da oltre una trentina di anni -negli anni '80 con altro nome- delle problematiche legate alla conflittualità nelle separazioni coniugali e ai problemi da questa emergenti: mobbing genitoriale e alienazione parentale.
Nel 1984 chi lo ha fondato e lo dirigeva, vale a dire l'autore di questo articolo, ha utilizzato per primo in Italia le tecniche della Mediazione Familiare, seguito ad anni di distanza da un Centro di Ancona. 
Nel corso di questi trenta e più anni, sono stati sviluppati modelli di intervento sia in campo psicoterapico (chi vuole riconoscersi negli orientamenti e nei legami col nostro Centro Studi, deve avere di necessità una preparazione psicoterapica di orientamento analitico, con una analisi personale molto importante alle spalle), sia in campo psicologico-forense, producendo alla fine modelli di intervento, e di lettura del problema molto personali.
Come si leggerà in questo articolo, il Centro ha sviluppato orientamenti specifici nella gestione delle “patologie da transazione mobbizzante in campo familiare”, e un lessico nuovo, sicuramente apparentemente pretenzioso e autoreferenziale alle esperienze dei professionisti che le portavano avanti, e che -coerentemente alle prospettive comuni- nasce sostanzialmente per orientarsi nel loro stesso orientarci nel loro campo di operazioni. Il loop linguistico con cui viene descritto tutto ciò, esprime dunque volutamente la prospettiva epistemologica alla quale ci si riferisce allorché si parla di “conoscenza umana”. Gli autori di riferimento sono, da questo punto di vista, Maturana, Varela, Bateson, e Morin.
Al momento, si riconoscono nelle linee guida dello stesso Centro altri professionisti, alcuni dei quali partecipano con costanza ad iniziative comuni, e sono la dr.ssa Benedetta Rinaldi ed il dr. Marco Muffolini Dottore in scienze e tecniche psicologiche, nonché la dottoressa Barbara Rossi, che opera a Milano (e Reggio Emilia). 
Questo articolo vuole essere la presentazione di un punto di partenza raggiunto dopo trenta anni di ricerche e studi sul campo, e che vuole qualificarsi come il frutto di una ricerca personale condotta sempre con scienza, coscienza, ricerca di etica nell'agire e nel proporre.




4. LE CONSEGUENZE SULLA COMPAGINE FAMILIARE DEL MOBBING GENITORIALE E DELLA TRANSAZIONE MOBBIZZANTE


4.1.0 Premessa: dalla coppia unita all'“Insieme Bi-Genitoriale da Separazione” a transazione mobbizzante.
Come detto nei capitoli precedenti, la separazione per motivi di conflitto di una coppia con prole, determina una serie di trasformazioni che possono portare la coppia a divenire quello che abbiamo definito "sistema di-familiare post-separativo" a transazione mobbizzante.
Premettiamo -a scanso di equivoci- che già di per se la coppia unita deve essere percorsa da problematiche (conflittive o meno) tali da creare le premesse per un esplodere della conflittualità separativa nei momenti successivi alla scissione in due nuclei abitativi (scissione seguita a breve scadenza, di solito, da una rapida trasformazione delle regole e delle modalità comunicative della coppia).
Molto probabilmente, le dinamiche collusive presenti nella coppia precedentemente alla separazione avranno una grande importanza proprio nel generare il contesto alienante ma proprio per questo devono essere trattate a parte.
Il primo passaggio verso il nucleo a transazione mobbizzante è dunque la separazione della coppia in due nuclei abitativi diversi, il che implica un rapido passaggio da regole in qualche modo condivise ad organizzazioni di vita e quotidiane già più divise.
In questa fase, noi descriviamo il formarsi dell'Insieme Bi-Genitoriale da Separazione”, termine con il quale descriviamo il legame -per certi versi paradossale e ricco di tensioni a rischio- che permane fra i due genitori separati, ormai residenti in abitazioni diverse, e dalla prole che li unisce (tendendo però a separarli in virtù delle opposte modalità con cui si esplica da adesso l'accudimento genitoriale).
Come detto precedentemente, ribadiamo che questo utilizzo di una nuova terminologia è funzionale a descrivere situazioni delle quali occorre cogliere la natura fondamentalmente diversa rispetto a quelle della famiglia normounita.
Vero è che la famiglia a genitori coabitanti può essere percorsa, più di quella a genitori non coabitanti, da tensioni e conflittualità psicopatogenetiche, ma è altrettanto vero che la famiglia separata, fondata ormai su due nuclei genitoriali divise, vede per l'esercizio della genitorialità dei due, regole e prassi talmente antitetiche da qualificarsi ormai con fisionomia ben diversa dalla famiglia a genitori non coabitanti. Di fatto, sarà proprio l'antiteticità delle modalità di accudimento, la differenza di coabitazione con la prole in termini di tempo, a generare le possibili tensioni tra i due ex partner.
Si formano, con l'Insieme Bi-Genitoriale da Separazione”, i due nuclei che la compongono: il polo familiare monogenitoriale” e il “polo genitoriale de-figliato”.
E' in questo momento, di fatto una fase del primo passo del possibile formarsi di un nucleo di-familiare a transazione mobbizzante, che emerge la “Sindrome del Nido Clonato”, nella quale entrambi i genitori tendono a vedere nell'altro un intruso. Il genitore che resta a coabitare con il figlio, tende infatti a sperimentare una prassi quotidiana di accudimento e impegno verso il figlio che gli fa percepire “l'altro” appunto come “un altro” rispetto ai problemi della genitorialità; il genitore rimasto a vivere senza prole, invece, sperimenta un vissuto di spoliazione della propria genitorialità, di cui tende a far carico all'altro.
I legami e le relazioni che tenderanno a svilupparsi da questo momento in poi saranno tendenzialmente paradossali e disfunzionali, quando non francamente patologiche, dal momento che i due ex partner saranno uniti proprio da ciò che li divide: l'accudimento della prole, che è un modello comportamentale istintualmente molto potente e in grado di spezzare l'importanza dei codici sociali acquisiti (come, ad esempio, quello della giustizia).
In sintesi, è come se si formassero due nidi, due nidi ciascuno clone uno dell'altro, destinati però a uno stesso uccellino.
Il secondo passaggio è l'entrata in scena del procedimento giudiziario come chiave di soluzione della conflittualità genitoriale. Da questo momento inizieranno i comportamenti mobbizzanti
Il procedimento giudiziario, che tende a tutelare i diritti dei singoli -dell'uno dunque rispetto all'altro, e non dell'uno insieme all'altro- e dunque non tutela la relazione in quanto tale, opera scomponendo l'esercizio della genitorialità, e generando una situazione di conflittualità ricorsiva, nella quale i due nuclei genitoriali si combattono perché devono:
a) dimostrare di essere ognuno genitore “più” adeguato dell'altro;
b) garantirsi la gestione e l'accudimento della prole, da cui “l'altro sembra escluderli.
Ognuno dei due genitori tenderà così ad identificare sé stesso come il genitore del minore, e identificherà i propri diritti con l'interesse del figlio. La logica della coppia diventa quella della subottimizzazione: entrambi cercheranno il proprio vantaggio a scapito del vantaggio dell'insieme.
Il procedimento giudiziario, sezionando l'accudimento genitoriale in modalità predefinite e aliene da un accudimento globale, porterà al "Family Chopping", cioè all'amputazione dei legami familiari in quanto tali, e/o alla loro segmentazione in momenti assolutamente discontinui tra loro. Il minore vivrà cioè una vita a compartimenti stagni e non comunicanti tra loro.
E' in questa fase che l'Insieme Bi-Genitoriale da Separazione diventa a transazione mobbizzante.
Da questo momento in poi si sviluppa un contesto alienante, dal momento che ognuno dei due genitori considererà sempre più l'altro come un intruso e tenderà ad espellerlo dalla vita del figlio.
Quanto poi questo contesto alienante si trasformerà in una Alienazione Parentale, è impredicibile. Quanto poi si debba distinguere tra PAS -cioè Sindrome di Alienazione Genitoriale- ed “Alienazione Parentale”, è un argomento ancora dibattuto.
Per quanto riguarda invece le conseguenze sui minori di un contesto a transazione mobbizzante, rimandiamo agli studi appositi, sottolineando però la pericolosità della situazione e sottolineando ancora una volta come l'utilizzo del Diritto nella gestione della conflittualità genitoriale non privilegi affatto la tutela del singolo -e nello specifico la garanzia di adeguate condizioni di crescita per il minore- ma solo la continua e ricorsiva (quanto anche, in molte occasioni, ritorsiva) applicazione di sé stesso.
Bisogna infatti sottolineare che non vi è mai un momento nel quale l'esercizio della giustizia in ambito familiare si arrenda per lasciare il posto ad altre soluzioni: anche la stessa “Mediazione” al momento viene utilizzata come interna ad un procedimento giudiziario, il che lascia sempre aperto lo spazio ad un suo utilizzo strumentale, e finalizzato ad un mero risultato processuale nei termini di adesso.
Per quanto comunque riguarda la PAS, daremo qui di seguito un veloce excursus, annotando sia quella che viene considerata la “sintomatologia” principale, sia occupandoci delle sempre più frequenti polemiche che si agitano attorno a questo vero e proprio fantasma concettuale ed operativo.


4.1.1. La cosiddetta PAS – Sindrome di Alienazione Genitoriale
Sindrome di Alienazione Genitoriale” e “Alienazione Parentale” sono termini ben noti a tutti coloro che si occupano di conflittualità genitoriale nel corso di procedimenti giudiziari.
Per quanto riguarda la PAS, possiamo dire, sinteticamente, come essa si manifesti con:
- il rifiuto di uno dei genitori da parte di un minore coinvolto in un procedimento giudiziario di separazione.
Tale rifiuto deve essere basato:
- non su oggettivi problemi di comportamenti da parte del genitore;
- su accuse relative o a comportamenti mai tenuti, o a comportamenti che usualmente sono considerate risibili o comunque non idonei a legittimare il rifiuto di avere contatti con un genitore.
Colliva, al proposito, (Colliva, 2005) riporta la necessità di poter definire la sintomatologia della PAS solo dopo aver definito cosa non sia la PAS. E la PAS non è:
  1. l’alienazione genitoriale prodotta da una “realtà reale” di mancanze, trascuratezze o violenze del genitore alienato”;
  2. una patologia del genitore alienante, ma una patologia instillata nel bambino”;
  3. sinonimo di accuse per violenze o abusi rivolte ad un genitore”.
Eccone invece una definizione in positivo:
"La sindrome di Alienazione Parentale (PAS), è un disturbo che insorge principalmente nel contesto delle controversie per la custodia dei figli. La sua manifestazione principale è la campagna di denigrazione rivolta contro un genitore: una campagna che non ha giustificazioni. Essa è il risultato della combinazione di una programmazione (lavaggio del cervello) effettuata dal genitore indottrinante e del contributo dato dal bambino in proprio, alla denigrazione del genitore bersaglio. In presenza di reali abusi o trascuratezza dei genitori, l'ostilità del bambino può essere giustificata e, di conseguenza, la Sindrome di Alienazione Parentale, come spiegazione dell'ostilità del bambino, non è applicabile." (Gardner, 1985, p.1)
In questo disturbo, un genitore (solitamente indicato come alienatore, genitore alienante o genitore origine della PAS), attiva un programma di denigrazione contro l’altro (generalmente indicato come genitore alienato o genitore bersaglio), allo scopo di ottenere che il figlio si rifiuti di frequentare l’altro genitore. Quello che differenzia la PAS da un semplice “lavaggio del cervello”, attuato da un genitore sul figlio, è il fatto che il bambino diventa egli stesso protagonista della campagna di denigrazione ed è proprio questa combinazione di comportamenti che legittima una diagnosi di PAS. E’ importante sottolineare che la denigrazione del figlio non deve essere imputata ad un reale comportamento negligente del genitore bersaglio. Si può dunque parlare di Sindrome da Alienazione Parentale solo quando il figlio attua un comportamento alienante assolutamente ingiustificato, mentre in presenza di reali abusi o trascuratezza da parte di un genitore non si può parlare di PAS. Gardner affronta anche lo studio di quelle situazioni in cui, dopo la separazione, il comportamento dei figli cambia negativamente e ingiustificatamente nei confronti del genitore non affidatario, il quale, nella maggioranza dei casi, come la casistica dimostra, risulta essere il padre.
Egli individua gli otto sintomi primari che caratterizzano la PAS (1992):
1. campagna di denigrazione;
2. razionalizzazioni deboli, superficiali e assurde per giustificare il
biasimo;
3. mancanza di ambivalenza;
4. il fenomeno del “pensatore indipendente”;
5.appoggio automatico al genitore alienante nel conflitto genitoriale;
6. assenza di senso di colpa per la crudeltà e l’insensibilità verso il genitore alienato;
7. utilizzo di scenari presi a prestito;
8. estensione dell’ostilità alla famiglia allargata ed agli amici del genitore alienato.
A queste variabili Gardner ha di seguito aggiunto (1998a, 1998b, 2001a, 2001b) altri quattro criteri o fattori che consentono di indagare in modo specifico la relazione che intercorre tra il minore e i due genitori, per arrivare ad una corretta valutazione della sindrome. Verranno quindi anche valutate:
a) Le difficoltà del minore nel periodo di transizione da un genitore all'altro.
b) Il comportamento del minore durante la permanenza a casa del genitore alienato.
c) Il legame del minore con il genitore alienante.
d) Il legame del minore con il genitore alienato prima della separazione o, in ogni caso, dell'alienazione.
Lo studioso individua anche tre livelli di gravità di questo disturbo:
1. LIEVE (mild)
2. MEDIO (moderate)
3. GRAVE (severe)” (Cavedon, 2009)


5. IPOTESI DI GESTIONE CLINICA DEI CONTESTI GENITORIALI MOBIZZANTI E ALIENANTI


5.1. La gestione dei contesti a transazione mobbizzante: l'intervento del Tribunale o di suoi incaricati
Per quanto riguarda i tentativi di correzione dei disturbi della frequentazione genitore-figli, vi sono due categorie di strumenti di solito utilizzati (o indicati) per farvi fronte.
La categoria di interventi più comune, più percepita come “ovvia” e “giusta” (ma non necessariamente percepita come “adeguata”, riconoscendone praticamente tutti la sostanziale inutilità) è quella effettuata tramite ricorso al giudice. A questi di norma viene chiesto, in caso di impedimento alle frequentazioni, o una modifica in toto delle modalità di affido (da condiviso ad esclusivo), o una modifica delle modalità di frequentazione fra il genitore mobbizzato ed il figlio.
Una terza possibilità è la richiesta di autorizzare una esecuzione coattiva delle statuizioni giudiziarie, vale a dire la richiesta di far eseguire con intervento della Forza Pubblica quanto stabilito in merito ai rapporti genitore-figli. Usualmente questa modalità è poco utilizzata, perché ritenuta di fatto “ideologicamente” scorretta, e lesiva della stabilità psicofisica del minore (come recenti fatti di cronaca, e l'eco che hanno avuto, dimostrano).
Anche questo implica di fatto un paradosso illuminante, che denuncia tutta la confusione che si agita nella nostra cultura in tema i rapporti genitori-figli. Il punto è, infatti, che si postula una gestione giudiziaria delle conflittualità genitoriali in tema di accudimento dei figli, e poi si trova però scandaloso e inaccettabile una gestione giudiziaria dei dispositivi giudiziari. La problematica si presenta ancor più complicata se si tiene presente che nessuno trova scandaloso che i figli di famiglie disagiate (e magari definite tali per soli motivi economici) ma non necessariamente conflittuali, siano sottratti agli stessi con grande spiegamento di forze di polizia, allorché cioè devono esser affidati a case famiglia su ordine del Tribunale dei Minori. In questi casi l'impiego di Polizia, Vigili Urbani, Assistenti Sociali che eseguono il “prelievo” della prole non desta assolutamente lo scandalo che desta invece la vicenda del bambino sottratto alla mamma (o al padre) che non lo fa vedere all'altro genitore.
A prescinder comunque da ciò, e ritornando al tema delle soluzioni tentate per ripristinare la continuità relazionale genitore-figli, è comunque evidente che le modalità attuate tramite richiesta al Giudice di intervenire con statuizioni più efficaci, discendono entrambi dalla concezione secondo cui il disturbo della frequentazione genitore-figli è un problema essenzialmente giudiziario da risolvere con metodiche specificamente giudiziarie (anche se la modifica dell'affido e/o delle frequentazioni necessariamente si fonda su una prospettiva psicologica, utilizzata però in modo strumentale alla affermazione della forza del Diritto).
Al di fuori di questa categoria di interventi (che potremmo definire categorie di richiesta di esasperazione dell'intervento giudiziario), ve ne è un'altra, che potremmo definire “extragiudiziale”, entro la quale, più che altro per brevità espositiva, abbiamo incluso due (o tre, a seconda dei punti di vista) modalità di intervento attualmente praticate.
In realtà, anche queste modalità sono disposte o indicate dal Giudice, almeno nella stragrande maggioranze dei casi e questo a conferma del fatto che nella nostra cultura il conflitto genitoriale per la gestione della prole è percepito come un problema di “giustizia” e non di “salute” (pur essendo tutti consapevoli che gli effetti più tragici sono a livello psicofisico, e che a determinare tali conflitti è comunque un problema psichico, che si concretizza in una errata percezione dei limiti del proprio ruolo genitoriale).
In questo paragrafo, intendiamo dunque parlare di queste due (o tre) modalità di intervento.
La prima, quella più invocato -e più evocato- per porre fine a contesti di così grave conflittualità genitoriale è la Mediazione del Conflitto.
In Italia, il primo in assoluto esperimento di Mediazione del Conflitto, in caso di grave conflittualità genitoriale, fu effettuato nel 1986 da uno degli autori di questo articolo, il dr. Gaetano Giordano, presso l'Istituto di Psicologia Analitica (Riza Psicosomatica, pubblicità anno 1986), e venne denominato “Divorce Counseling”, mancando all'epoca una esatta terminologia italiana e mutuando il termine dalle esperienze americane di Coogler (Coogler, 1978), (Giordano, 1985),
Col tempo, però, fu chiaro che la mediazione poteva essere uno strumento privilegiato solo nel caso in cui entrambi i coniugi, superando almeno parzialmente gli “acting out” giudiziari (Salluzzo, 2004) legati all'esprimersi delle reciproche conflittualità, accettavano l'ipotesi di poter andare d'accordo.
Diveniva così esiguo il numero di coloro che riuscivano a praticare con profitto, e specie in assenza di disposizioni del Tribunale (all'epoca del tutto sconosciute quanto impensabili), una “Mediazione” accettabile e non mediata dalla ricattatorietà che puntualmente si esprime allorché uno dei due coniugi diviene consapevole che in caso di interruzione della mediazione, con ogni probabilità uscirà vincitore dal reinstauratosi conflitto giudiziario, prospettiva che molto più frequentemente vale appunto per le madri.
A parere di chi scrive, tali obiezioni sono ancora in gran parte valide, non essendo mutato di molto lo scenario nel quale la Mediazione viene ad operare e, soprattutto, non essendo mutato di molto il contesto di gestione -giudiziaria e sociale entro il quale la Mediazione si colloca e viene utilizzata.
In realtà, come detto precedentemente, il vero problema è che l'intervento della giustizia non solo rischia di essere sempre molto tardivo, ma – proprio in virtù della natura conflittiva del percorso giudiziario – rischia di non rendere mai premiante il ricorso a percorsi a-conflittivi, come è la Mediazione, la quale individua come propria strategia la collaborazione (e non il conflitto), e come obbiettivo la condivisione (e non la supremazia), proponendo appunto come detto un gioco a somma diversa da zero, nel quale cioè i vantaggi dell'uno non portino a zero quelli dell'altro ma facciano parte di una, diciamo così, contabilità condivisa.
Vista dunque con gli occhi di chi “vuole vincere la causa” perché sa che se vince ottiene molti più benefici di quelli che avrebbe se condividesse con l'altro fiducia e responsabilità (ecco il “dilemma dei prigionieri”) abbiamo che nella maggior parte dei casi la Mediazione viene percepita come un percorso inutile e di perdita, ovviamente in una logica nella quale prevale una prospettiva per così dire di “subottimizzazione”, vale a dire una logica in base alla quale il genitore che si augura di uscir “vincitore” dal conflitto con l'altro coniuge, identifica il proprio benessere con quello del figlio.
In sintesi, la Mediazione del Conflitto difficilmente riesce ad accreditarsi come strategia utile alla coppia in conflitto in quanto è iscritta in un sistema che distrugge l'utilità.
Gli altri interventi di recupero della genitorialità sono espletati di norma dai Servizi Sociali, dalle ASL o da istituzioni analoghe e sempre su incarico del Tribunale, anche qui a riprova di come il Diritto sia in questo momento un sistema autoreferenziale che ingloba ogni soluzione relativa alle problematiche di conflittualità genitoriale.
Gli interventi di cui stiamo parlando, comunque, possono essere di pura osservazione e valutazione -in assenza cioè dei tentativi di recuperare situazioni patologiche- o anche contenere l'indicazione di un intervento volto al recupero della situazione.
Nel primo caso, il Giudice dà mandato di “monitorare” la situazione per riferirgli, onde disponga gli interventi che ritiene più adeguati; tra queste richieste, vi può essere quella rivolta -in genere al Servizio Sociale, o anche al consultorio di zona, o alla ASL- di “valutare l'adeguatezza genitoriale dei due ex coniugi”, ovvero di indagare quali sono i rapporti tra genitori e figli. Usualmente, non è previsto all'espletamento di questi incarichi partecipino i consulenti delle parti: in realtà si tratta sempre di forme di consulenza tecnica che il Giudice, agendo nell'ambito della volontaria giurisdizione, può richiedere vengano espletate da un suo consulente di fiducia.
Ciò implica un dato però fondamentale: questo tipo di consulenza, considerato meno impegnativo e fondante di una CTU vera e propria, in quanto svolta in assenza di professionisti appositamente designati, si qualifica in realtà come uno strumento assolutamente delicato e, a nostro avviso, “pericoloso”: non raramente lascia perplesse e scontente le parti, e altrettanto non raramente incide pesantemente (e senza che le parti possano dire la loro) sulla situazione della coppia: l'assenza di consulenti di parte rende di fatto l'operatore che interviene una sorta di “deus ex machina” che interviene in assenza di qualsiasi contraddittorio e con poteri quanto mai ampi.
Fermo restando infatti che il giudicante, almeno formalmente, si riserva di valutare il contenuto di tali consulenze (rimanendo sempre “peritus peritorum”), vero è che nella stragrande maggioranza dei casi il Giudice sembra recepire abbastanza passivamente quanto indicato dai suoi consulenti, e questo senza che le parti possano dunque intervenire ad esprimere i propri punti di vista.
Alcuni giudici, in questi casi, negano anche alle parti la possibilità di depositare le proprie osservazioni su quanto opinato dagli operatori incaricati, e questo di fatto crea, il più delle volte un certo malcontento, alimentato dal fatto che in alcuni casi sembrano fondate le critiche rivolte agli operatori, che appaiono agire in modo superficiale e non sempre sembrano dotati di una accettabile preparazione specifica. In più, non raramente L'argomento è in realtà molto delicato, perché dai pareri di questi operatori discenderanno poi -come detto precedentemente- provvedimenti che segnerannno per anni e anni la vita di adulti e minori.
Se in queste ultime righe abbiamo sinteticamente descritto incarichi dai soli aspetti di “consulenza”, nei quali cioè i Servizi Sociali o comunque gli operatori incaricati devono solo riferire su quanto vedono esprimersi nelle coppie di genitori relativamente all'esercizio della genitorialità, passiamo ora a discutere di quegli interventi che il Giudice a volte dispone per rimediare ai gravi problemi di conflittualità che emergono nelle coppie in separazione.
In questi casi, nelle more di un procedimento di separazione (e anche a causa della grave -in termini di traumaticità dell'esperienza- durata dello stesso), il Giudice dà mandato ai Servizi Sociali (o, anche qui, al Consultorio di zona o ad un settore specializzato della ASL) di intervenire per porre rimedio ai disturbi della frequentazione, e dei rapporti genitore-figli, che emergono nei sistemi familiari in separazione.
Si tratta dunque di incarichi che hanno già una dichiarata valenza terapeutica, e che proprio per questo abbisognerebbero di particolari competenze.
In realtà, nella maggior parte dei casi tali interventi sono recepiti con una certa insoddisfazione, da parte degli utenti cui sono rivolti.
Il più delle volte, infatti, risultano inutili o addirittura frustranti, per una molteplicità di motivi, che vanno dalla scarsa disponibilità di uno dei genitori (in genere l'affidatario o il collocatario prevalente), alla incapacità dell'altro di accettare l'intervento esterno (vissuto con quella diffidenza e sospettosità verso i professionisti, tipica del genitore deprivato di un figlio) alla -bisogna pur dirlo- scarsa preparazione e competenza degli operatori che intervengono.
Il genitore affidatario o collocatario con il figlio, tende infatti a sabotare una tale “terapia” e gli incontri, anche laddove il percorso sia stato stabilito da un dispositivo del Tribunale, aderendovi svogliatamente e trascurando che il figlio vi partecipi con puntualità e precisione, e assumendo dunque un atteggiamento svalutativo sia rispetto alla qualità dell'intervento, sia alla adeguatezza dei professionisti coinvolti.
Il genitore vittima della rescissione dei rapporti, invece, tende ad avere ovviamente una partecipazione puntuale e precisa, specie agli inizi, ma non raramente tende a inutilizzare il percorso ponendosi in modalità rivendicatoria, e sterile, verso il fine proposto e, nel caso, verso gli operatori.
I quali, e dobbiamo segnalarlo, non sempre sono all'altezza del compito affidato loro, sia perché percepiscono come frustrante e demotivante il clima creato dagli adulti, sia perché non dispongono di conoscenze tecniche specifiche, sia perché non rarissimamente, per non dire il più delle volte, si dispongono a organizzare la “terapia” come se trattassero una pratica burocratica. Anche a costo di essere ingenerosi verso quegli operatori competenti ed entusiasti che -e ce ne sono molti- attendono ad interventi del genere con scrupolo ed attenzione, bisogna infatti considerare come in molte occasioni incarichi del genere sono percepiti dagli operatori incaricati non come indicazioni a svolgere una terapia che sarà fondamentale nella vita dei soggetti coinvolti (e lo sarà di fatto quanto un intervento chirurgico a cuore aperto, perché sono interventi da cui dipende l'esclusione dalla vita di tutti di un familiare), ma come indicazioni burocratiche ad assolvere un compito essenzialmente burocratico, nel quale, in aggiunta, saranno riversate molte delle insoddisfazioni professionali e personali dell'operatore, allorché dovrà confrontarsi con soggetti irritati, diffidenti, aggressivi, rivendicatori, svalutanti. L'incapacità a pensare al contatto con questi soggetti in termini di “rapporto psicoterapico”, e a gestire le problematiche personali che tali contatti innescano, il considerare tutto come una pratica da evadere sbrigativamente e negli orari di lavoro, magari pensando ad altro, l'assenza di competenze e conoscenze professionali specialistiche (e di un percorso personale di gestione delle proprie problematiche) sono i veri punti critici che rendono puntualmente fallimentari o quanto meno inadeguati i suddetti tentativi di recupero della genitorialità.
In tanti anni di coinvolgimento in contesti del genere, solo in una occasione abbiamo trovato infatti genitori soddisfatti del programma terapeutico impostato: avevano lavorato con una psichiatra e una psicologa giovani ed entusiasti. Osservato da questo punto di vista, grande importanza potrebbe avere dunque anche la predisposizione con il quale il professionista affronta la terapia, non essendo inverosimile che nei casi più gravi si attivi, per così dire, un cortocircuito, nel quale il crollo delle aspettative nei genitori (per motivi opposti), convalida nei terapisti l'inutilità di averne delle proprie.
Usualmente, i setting individuati in questo tipo di interventi sono abbastanza “banali”: fondati su una generica impostazione sistemico-relazionale, prevedono incontri che durano un'ora, basati sul colloquio tra il terapista e il o i minori coinvolti nella separazione, ai quali vengono invitati a volte a partecipare anche i genitori di questi.
I colloqui tendono ad approfondire cosa accade ai minori al di fuori degli incontri, e i motivi per i quali i rapporti con l'altro genitore sono rarefatti o nulli.
Data la grande (e grave, a nostro avviso) atipia del setting, in genere il colloquio si fonda sul cercare di far percepire come infondato e dannoso l'interruzione dei rapporti tra il figlio e il genitore, ovvero di favorire (in caso di sedute congiunte), il dialogo genitore-figlio, o anche tra i due ex coniugi e i minori.
In diversi casi, nel genitore per il cui “recupero” è predisposto l'intervento, viene riscontrato un atteggiamento rivendicatorio e aggressivo, di cui gli viene fatto carico (e che viene segnalato anche nelle relazioni al tribunale).
Molto probabilmente, tale atteggiamento è il risultato sia di pregressi stili cognitivi e caratteriali, o di pregressi disagi della personalità, sia, unitamente a questi, della dimensione gravemente traumatica che si esperisce allorché ci si vede interrotti i rapporti con i propri figli.
Non raramente, però, e questo anche per inesperienza o non completa formazione degli operatori, tale atteggiamento viene identificato come il vero problema, quello che tiene lontano il minore dal genitore rescisso, e questo complica notevolmente le possibilità di recupero della situazione. Non sempre, cioè, gli operatori si rendono conto che l'atteggiamento rivendicatorio, aggressivo e ostile del genitore rifiutato o deprivato ha una netta valenza post-traumatica, e ne fanno carico al genitore quasi come se fosse una sua scelta o una sua colpa.
Un tale atteggiamento da parte degli operatori, che a nostro avviso è grave e può distruggere tutta la terapia intentata, a nostro avviso potrebbe costituire una imperizia o una colpa anche gravi (vedasi il paragrafo successivo, relativo ai cenni medico-legali), perché chi si occupa di casi del genere dovrebbe -e lo esprimiamo volutamente in linguaggio non scientifico- quanto meno sapere anticipatamente conto che il minimo che può accadere ad un genitore privato dei figli sia una reazione di questo genere. Che certo non deve essere validata sul piano razionale e comportamentale, ma che comunque va diagnosticata per quello che è.
Non raramente, comunque, reazioni di questo tipo degli operatori, che spesso vivono sul piano personale le reazioni e gli “acting out” dei genitori con cui hanno a che fare, sono responsabili del fallimento di siffatte terapie. Dal nostro punto di vista, non riuscire a gestire -ovviamente in modo costante e comunque significativo- il proprio “controtransfert” in simili frangenti costituisce, dato il contesto particolarmente delicato, una colpa e/o una imperizia anche gravi. Sarebbe tuttavia importante che nei settori istituzionali più facilmente coinvolti in incarichi del genere, si avviassero gruppi di ricerca o quanto meno di aggiornamento, circa terapie del genere, così come gruppi per la gestione dell'inevitabile burn out.
Bisogna comunque considerare che non esistono ovviamente protocolli di intervento standardizzati, e che sarebbe pertanto importante rifarsi a setting ed impostazioni conosciute, in modo da avere un sicuro riferimento che porti almeno ad operare con coerenza. Sempre dal nostro punto di vista, riteniamo però che per affrontare casi del genere bisogna avere solide conoscenze nel campo della terapia familiare e, comunque, un buon percorso analitico o, comunque ancora, un addestramento che metta in grado di far fronte all'inevitabile frustrazione e senso di malcontento che gestire terapie (e genitori) del genere, comporta.
Purtroppo, riteniamo di dover concludere questo paragrafo con la constatazione che, in ogni caso, i risultati di questo tipo di interventi tendono ad essere deludenti, tranne, come detto, rare evenienze: molto probabilmente, il contesto istituzionale -ASL, Servizi Sociali, Consultorio, ecc.- non aiuta molto o per nulla nella riuscita di tali interventi.


5.1.1. Cenni sulla responsabilità professionale degli operatori dei Servizi Sociali incaricati dal Giudice
Avv. Massimiliano Fiorin – Foro di Bologna
La prassi giudiziaria, riguardo alle consulenze affidate agli operatori dei servizi sociali presso i Comuni e le ASL italiane, presenta numerose criticità.
In primo luogo, esiste una sensibile discriminazione di tipo organizzativo-territoriale, secondo la quale il giudice ordinario, il giudice tutelare, ovvero il Tribunale dei Minorenni, tendono a ricorrere ai servizi sociali con frequenza tanto maggiore quanto più il servizio è strutturato nell’ambito della loro circoscrizione.
In altre parole, nelle zone del territorio nazionale dove il servizio sociale è meno presente, o comunque meno operativo – come nei centri urbani minori, e in vaste aree del mezzogiorno – è più probabile che gli uffici giudiziari tendano a affidarsi a liberi professionisti, ovvero a omettere il più possibile il ricorso alla consulenza e/o all’intervento coattivo dei servizi.
Tutto ciò dipende dal fatto che nel nostro ordinamento il giudice gode di un’ampia discrezionalità nella scelta dei propri ausiliari. A ciò si aggiunga che, se nei tribunali ordinari esiste un minimo di tutela procedurale, questa di fatto viene completamente a mancare presso i tribunali dei minorenni. Di conseguenza, è presso questi ultimi che le situazioni più critiche e discutibili assumono un carattere endemico.
Il giudice ordinario, infatti, ai sensi dell’art. 61 c.p.c. deve “normalmente” scegliere i suoi consulenti tecnici “tra le persone iscritte in albi speciali formati a norma delle disposizioni di attuazione al presente codice”. Il singolo giudice può derogare alle liste delle persone iscritte nei suddetti albi, per rivolgersi a un altro professionista di sua fiducia, ma in questo caso deve ottenere l’autorizzazione del Presidente del Tribunale, e soprattutto rimane pur sempre soggetto al principio per cui la scelta deve essere operata tra persone “di particolare competenza tecnica”.
Inoltre, i professionisti scelti dai tribunali civili e penali operano a seguito di un giuramento, che li vincola a adempiere il compito ricevuto secondo scienza e coscienza, e comunque nell’ambito di regole procedurali che consentono alle parti – e agli specialisti scelti da queste – di intervenire in contraddittorio, sia nel corso delle indagini di fatto, sia nella fase di elaborazione del parere del consulente incaricato.
Per quanto invece riguarda i tribunali dei minorenni, che nella prassi sono sempre più interessati alle situazioni di crisi genitoriale e di abbandono di minore, è invece quasi completamente esclusa l’applicabilità delle norme del codice di procedura civile. Ciò significa che i giudici di detti tribunali (che sono in maggioranza non togati) sono soliti incaricare i servizi sociali, ovvero professionisti esterni di loro fiducia, senza alcun controllo né possibilità di contraddittorio da parte dei legali che assistono i genitori interessati.
Lo stesso, peraltro, avviene nel corso dei procedimenti civili di separazione in cui viene richiesto un provvedimento urgente di sospensione della potestà genitoriale, o anche solo l’affidamento esclusivo del minore: non è raro che anche il giudice ordinario, in questi casi, prima di disporre una consulenza tecnica d’ufficio, da affidarsi normalmente a uno psicologo o a un altro specialista – e di fatto, molte volte, in luogo di questa – si avvalga dei poteri concessigli in caso di urgenza, per richiedere l’intervento degli assistenti sociali.
Così, molte volte, fin dal momento in cui la situazione di crisi viene posta all’attenzione del giudice – a seguito di una denuncia che normalmente proviene da uno dei genitori, o in casi più rari dall’ambiente scolastico frequentato dal minore che manifesta disagio – i servizi sociali del comune di residenza del minore in questione vengono subito incaricati di intervenire a redigere una relazione conoscitiva.
Questo fatto, in primo luogo, richiede che i servizi stessi siano in grado di supportare l’incombenza, cosa che è sempre meno scontata, sia nei piccoli centri, dove il servizio è meno strutturato, sia nelle grandi aree urbane, dove gli operatori alle dipendenze del Comune o dell’Azienda Sanitaria Locale sono spesso sotto organico.
In genere gli operatori dei servizi, vista l’assenza di stretti limiti procedurali, prendono contatto con il minore interessato e i suoi familiari in modo diretto e informale, al di fuori di qualsiasi possibilità di contraddittorio da parte di professionisti di fiducia nominati dalla famiglia. Anzi, le linee guida che vengono normalmente seguite dagli assistenti sociali suggeriscono che l’assunzione di informazioni, nelle situazioni di crisi familiare, avvenga al di fuori di qualsiasi interferenza esterna, soprattutto quella degli avvocati, che tendono a essere considerati come fattori di disturbo per l’accertamento della verità.
Gli assistenti sociali sono altresì espressamente richiesti di relazionare con attenzione – assieme ai vari particolari della situazione di fatto, e all’anamnesi della storia pregressa e attuale della coppia genitoriale – anche le reazioni frapposte dai genitori interessati dal loro intervento. In particolare, viene evidenziato se gli stessi si dimostrano collaborativi, ovvero ostili, nei confronti dell’intervento dell’operatore.
Già questa prassi può comportare un sensibile squilibrio di fondo, nel successivo trattamento delle situazioni di crisi familiare e genitoriale. Infatti, le eventuali reazioni negative di uno o entrambi i genitori di fronte all’intervento coattivo dei servizi (ostilità, freddezza, rifiuto di fornire informazioni, scarsa disponibilità a vedere invasa da un estraneo la propria intimità familiare, già messa a dura prova dalla crisi), benché siano perfettamente spiegabili e addirittura prevedibili su un piano psicologico, rappresentano un fattore assai negativo nella valutazione che verrà data da parte dell’assistente sociale.
Allo stesso modo, è facile vedere che in molte relazioni predisposte a uso del magistrato, gli assistenti sociali prediligono, nell’osservazione della situazione di fatto, i particolari che rivelano le condizioni sociali e economiche del genitore, e talvolta la sua affidabilità “sociale” (puntualità, abilità nella cura del bambino, o addirittura eventuali trasandatezze nel vestire e nell’igiene personale). Tutto questo, però, senza troppo riguardo per le possibili cause psicologiche dei disagi apparenti.
Il problema consiste dunque nella preparazione di fondo degli assistenti sociali, che è molto più di tipo sociologico che psicologico. In Italia, la legge istitutiva dell’ordine degli assistenti sociali risale al 1993, dopo che la professione era stata svolta esclusivamente da operatori volontari, spesso privi di una reale formazione specifica. I corsi di laurea specialistica per assistenti sociali hanno preso quota solo dopo il D.P.R. 5 giugno 2001, n. 328, che tuttora consente di operare in questo settore anche a coloro che sono privi di laurea specialistica, ma hanno conseguito soltanto un diploma di laurea triennale.
Ad ogni modo, la formazione degli assistenti sociali è per l’appunto di tipo prevalentemente sociologico, senza particolari approfondimenti di psicologia della famiglia, o di psicologia dell’età evolutiva. Tutto questo è perfettamente riscontrabile nel modo in cui, di fatto, essi si trovano a dovere esprimere giudizi sull’idoneità genitoriale delle persone che vengono sottoposte alla loro valutazione: le problematiche di tipo economico e sociale tendono a essere valorizzate molto più che non i bisogni affettivi, per non parlare della evidente insufficienza di questi operatori nel saper riconoscere e affrontare i disturbi del comportamento o le sindromi da separazione, tra le quali il mobbing genitoriale.
Se si considera che, in molti casi, il parere dei servizi sociali diventa di fatto determinante per la decisione del giudice di allontanare il minore dalla famiglia, o di negare l’affidamento dello stesso a un genitore, si possono intuire i rischi ai quali i figli di coppie genitoriali in crisi si trovano esposti.
Capita spesso, agli avvocati, di sentirsi chiedere dai genitori interessati da provvedimenti giudiziari riguardanti la loro idoneità genitoriale, se sia possibile denunciare gli assistenti sociali o gli altri ausiliari del giudice (se non proprio il giudice stesso), per i giudizi espressi nelle relazioni e nei provvedimenti.
Il più delle volte si tratta delle reazioni istintive di chi, in effetti, si vede colpito da un duro giudizio relativo alla propria sfera personale e affettiva, che viene comprensibilmente ritenuto troppo gratuito e infamante. Tant’è che, in molti casi, la superficialità con la quale vengono espresse certe valutazioni piuttosto tranchant sulla idoneità genitoriale, se non proprio sull’equilibrio mentale del soggetto esaminato, colpisce anche l’occhio dell’osservatore imparziale. Tuttavia, le possibilità di ottenere soddisfazione giudiziaria contro la superficialità e l’incompetenza con cui vengono espressi certi giudizi è molto bassa e aleatoria.
Il nostro ordinamento conosce varie fattispecie penali, più o meno legate a quella della consulenza infedele o dell’intralcio alla giustizia, in cui l’ausiliario del giudice ha agito dolosamente contro i propri doveri.
Sussiste anche la responsabilità civile dell’ausiliario del giudice che commette un falso ideologico o materiale nelle sue relazioni (anche se, di fatto, è assai difficile che vengano scoperti casi in cui l’interessato abbia rappresentato volontariamente fatti non contrari al vero).
Ma a parte queste situazioni estreme, la possibilità di impugnare relazioni viziate dalla manifesta incompetenza del perito che le redige, o di invocare per lo stesso motivo una sua responsabilità professionale presso l’Ordine di appartenenza, è alquanto ridotta.
Intanto, non è mai punibile di per se stessa l’offensività di certi giudizi per la reputazione dei genitori o dei minori interessati, trattandosi di atti destinati a un procedimento giudiziario. Questo a meno che non si tratti di offese non solo del tutto gratuite, ma anche completamente estranee alla materia oggetto di accertamento, cosa che non avviene quasi mai.
Per il resto, va osservato che in questi casi non ci si trova nel campo – ben più sensibile – in cui la negligenza o l’imperizia del professionista può dare luogo a responsabilità contrattuale, ma semmai in quello della responsabilità extracontrattuale da fatto illecito.
Ora, in linea di principio, tale responsabilità è regolata dall’art. 64 c.p.c. secondo il quale “il consulente tecnico che incorre in colpa grave nell'esecuzione degli atti che gli sono richiesti, è punito con l'arresto fino a un anno o con l'ammenda fino a 10.329 euro”. Detto articolo aggiunge infatti che, oltre alla sanzione pubblicistica, “in ogni caso è dovuto il risarcimento dei danni causati alle parti”.
Pertanto, la possibilità di venire risarciti dei danni materiali e morali derivanti da gravi responsabilità colpose dell’ausiliario del giudice sussiste, ancorché costui operi al di fuori di ogni vincolo privatistico, atteso che il consulente è un ausiliario del giudice ed opera in funzione dell’accertamento che al giudice è demandato, ovvero in funzione del superiore interesse della giustizia (sul punto v. Cass. civ., 25 maggio 1973, n. 1545).
Per individuare una responsabilità di questo tipo nei confronti delle parti, occorre rifarsi al criterio della colpa grave, a quello della sussistenza effettiva del danno, e infine al nesso di causalità tra la condotta del perito e il danno stesso (Cass., Sez. III, 1 dicembre 2004, n. 22587). Il consulente del giudice, quindi, come ogni professionista intellettuale, risponde dei danni cagionati alla parte che siano in rapporto di causalità con le sue attività, laddove nello svolgimento dei suoi compiti sia riconoscibile in capo all’operante il requisito della colpa grave.
Tuttavia, al danneggiato compete la prova, oltre che del danno, anche quella del nesso di causalità tra esso e la condotta del consulente, e soprattutto la caratterizzazione della colpa in capo a costui in termini di assoluta gravità. Per questi motivi, se la possibilità esiste sul piano teorico, è piuttosto difficile provare che il consulente del giudice abbia agito con colpa grave, consistente in negligenza o imperizia professionale. Queste ultime, infatti, in mancanza del vincolo contrattuale con la parte che subisce la perizia, vengono valutate in modo meno rigoroso.
Occorrerebbe, in linea di principio, che nell’attività del consulente sia completamente mancata l’assunzione di elementi di fatto decisivi per la valutazione del caso (negligenza), oppure che – non necessariamente in alternativa – tali elementi siano stati valutati con assoluta incompetenza professionale, rispetto alle conoscenze che sarebbero richieste per svolgere il ruolo (imperizia). Ciò al punto che, al limite, in simili casi si dovrebbe ritenere che il perito avrebbe dovuto piuttosto astenersi dal prestare il proprio giudizio, riconoscendosi privo di conoscenze adeguate.
Esiste infine la possibilità di presentare esposti al comitato giudiziario che, ai sensi degli articoli 14 e seguenti del codice di procedura civile, provvede alla scelta e alla nomina dei consulenti tecnici che vengono inseriti negli albi, ed è responsabile dei procedimenti disciplinari nei loro confronti. Detti procedimenti vengono promossi dal Presidente del Tribunale, e possono portare alla esclusione dall’albo. Tuttavia, casi di esclusione di ausiliari del giudice, in cui la violazione dei doveri d’ufficio sia stata ravvisata nella grave imperizia o nell’errore di giudizio, sono abbastanza residuali.
Alquanto diversa potrebbe essere, in linea di principio, la situazione che riguarda gli incaricati dei servizi sociali. Infatti, a ben vedere, la norma dell’art. 64 c.p.c. si applica solo ai consulenti che hanno esercitato il proprio in carico a seguito del formale giuramento, e nelle forme prescritte dal codice di procedura.
Gli operatori dei servizi sociali, che sono richiesti di intervenire per redigere relazioni conoscitive sulla situazione di crisi genitoriale, e non vere e proprie consulenze tecniche, possono essere considerati ausiliari del giudice solo in senso lato, e dunque – a rigore – potrebbero essere ritenuti esenti dal limite di responsabilità per la sola colpa grave, prevista dal citato art. 64 c.p.c.
L’esito pratico potrebbe dunque essere diverso: infatti, se per gli ausiliari del giudice in senso stretto vale il limite della colpa grave previsto espressamente dall’art. 64, per i semplici incaricati dal giudice, che operano al di fuori del vincolo della consulenza tecnica, dovrebbero valere le comuni norme sulla responsabilità professionale. Vale a dire che l’assistente sociale potrebbe essere ritenuto responsabile per i danni arrecati ai minori e ai genitori (a condizione che si provi il nesso di causalità) anche per colpa lieve, cioè per tutti i casi di negligenza, imperizia o imprudenza nell’esercizio delle proprie funzioni.
Esiste è vero, l’art. 2236 del codice civile, in virtù del quale tutti i professionisti intellettuali comunque godono dell’esimente dalla responsabilità per colpa lieve, nei casi in cui la loro prestazione implichi “la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”. Si tratta di una norma che, a ben vedere, dovrebbe operare solo nei casi di responsabilità contrattuale, quando cioè il professionista opera su mandato del cliente, e non per adempiere a una richiesta del giudice.
Tuttavia, se da una parte la giurisprudenza sta sempre più assimilando questo tipo di responsabilità del professionista a quella contrattuale, in base alla nota teoria del “contatto sociale” che consente di sopperire alla mancanza di un vero e proprio contratto d’opera tra le parti, nel contempo essa ha individuato il principio per il quale “problemi speciali esigono dal professionista una competenza speciale” (v. Cass. 25 settembre 2012, n. 16254).
Vale a dire che, anche per il professionista che esercita il suo compito senza vincolo contrattuale tra le parti, è sempre più difficile invocare a propria scusante la difficoltà del compito, pretendendo di essere esonerato da responsabilità per colpa lieve in base all’art. 2236 cod. civ. Peraltro, va aggiunto che il professionista non può mai ritenersi esente da colpa, qualora la sua mancanza non sia consistita in un caso di imperizia – cioè di mancanza di conoscenze tecniche adeguate – bensì di negligenza o di imprudenza.
Quanto si è detto per gli assistenti sociali può operare anche per altri professionisti, in una casistica relativamente nuova, che ha iniziato a ricorrere più spesso dopo l’approvazione della legge 8 febbraio 2006, n. 54, sull’affidamento condiviso. Capita infatti con una crescente frequenza che, nell’ambito del trattamento delle separazioni conflittuali, il giudice incarichi i servizi sociali – ovvero i propri professionisti di riferimento, specialisti di psicologia – di intervenire nella situazione di crisi familiare non a scopo conoscitivo, bensì per aiutare le parti a trovare una soluzione.
Può dunque capitare che all’ausiliario del giudice sia richiesto di intervenire per verificare le possibilità di recupero di normali frequentazioni della prole da parte del genitore non affidatario, oppure per disciplinare le modalità delle visite a fronte della difficoltà degli interessati di provvedere da soli, o anche, del tutto esplicitamente, per tentare una mediazione che porti a una trasformazione del procedimento in una separazione consensuale.
In tutti questi casi si recupera l’autentica portata della cosiddetta giurisdizione volontaria, cioè di quell’ambito della giurisdizione in cui il magistrato non opera per tutelare i diritti soggettivi decidendo sui contenziosi, bensì per integrare le libere determinazioni delle parti stesse, in casi nei quali tradizionalmente si parla di “amministrazione pubblica del diritto privato”, benché il giudice finisca ugualmente per incidere su situazioni giuridiche protette.
In tutti questi casi, a maggior ragione, in linea di principio si può dire che il professionista incaricato dal giudice sia tenuto a rispettare gli stessi doveri di competenza, prudenza e diligenza che gli spetterebbero nell’ambito di un normale contratto di opera intellettuale, e che la sua responsabilità verso le parti e anche verso il minore – sia pure in assenza di un formale vincolo negoziale – sia assimilabile alla responsabilità contrattuale.


5.1.2. Tentativi di intervento clinico in casi di c.d. "alienazione parentale" con interruzione del legame genitori-figli: una premessa
Nella nostra pratica clinica ci siamo trovati diverse volte, a partire da una quindicina di anni circa, di fronte alla richiesta di intervento clinico nei casi di cosiddetta alienazione parentale. Si trattava nella maggior parte dei casi  di padri che da mesi, il più delle volte da anni, avevano perso il contatto con i loro figli, che vedevano e sentivano rarissimamente.
In alcune occasioni, in concordanza con le statistiche (che vedono le madri minoritarie, ma non escluse, dai processi di alienazione), la stessa richiesta ci è stata rivolta da madri.
Conseguentemente, abbiamo tentato di approntare, nel tempo, delle ipotesi terapeutiche, le prime delle quali erano rivolte al contenimento dell'angoscia da separazione.
Nei contesti a transazione mobbizzante, nei quali la PAS o la “Alienazione Parentale” possono diventare realtà molto vive, e si incontrano genitori che hanno perso i contatti con i figli da anni, l'angoscia da separazione è una angoscia spesso incontenibile, perché lontanissima dalla possibilità di riconoscere un punto di realtà al quale ancorarsi: se la morte di un congiunto permette di mettere un disperato segnale di fine e di un nuovo inizio, il contesto della alienazione parentale, specie quello con assenza totale o pressoché totale di contatti, diventa un contesto che rimanda sempre alla creazione di nuova sofferenza, perché la fine, contrariamente a quanto accade in un lutto reale, è una fine che non finisce mai. Il figlio tanto voluto vive magari a mezzo chilometro da casa, e solo che l'“altro” lo volesse -così sembra alla vittima della alienazione parentale, e così molto spesso è-, quel figlio sarebbe immediatamente avvicinabile.
E' dunque una situazione che spinge a sofferenze terribili e a comportamenti non sempre controllabili e gestibili, perché quello che allo psicoterapeuta appare come un “acting out” rabbioso e autodistruttivo, al genitore “alienato” sembra -e ai suoi occhi “è”, e spesso ci sono moltissime evidenze a confermarlo- una soluzione quanto meno reale e concreta, nonché legittima e giustificata, anche quando si tratta di rischiare anni di galera e, soprattutto, confermare all'altra parte la visione perversa e negativa che l'altra parte vuol dare del genitore alienato.
Tenendo poi conto di come il contesto giudiziario offra uno spazio abbastanza atipico di possibilità di “agire” -in cui la chiave è sempre un poter agire attraverso qualcuno e qualcosa (ad esempio, una nuova richiesta al giudice attraverso il proprio legale) ma che questo agire tende dunque a connotare (e sollecitare) ipotesi vendicative e persecutorie di un agire così mediato, è facile comprendere come “contenimento dell'angoscia” possa molto spesso significare -in contesti di grave PAS o la “Alienazione Parentale”- il richiamo alla possibilità di “acting out” auto- ed etero- lesivi, anche di una certa notevole gravità.
In sintesi, il contesto giudiziario è un contesto molto legato al “poter agire” attraverso un atto giudiziario, ma questo, molto spesso e soprattutto molto facilmente, evoca nel genitore alienato un “poter agire” che va verso l'acting out etero- ed auto- lesivo come risposta all'”agito” che riceve -e che interpreta ovviamente come atto persecutorio- dal suo ex partner.
Avere come obiettivo terapeutico il contenimento dell'angoscia da separazione di un genitore privato da “qualcun altro” e grazie alla tacita passività di una non sistema che dovrebbe garantire la giustizia, apre percorsi terapeutici difficilissimi, spesso disperati e disperanti, e che mettono a durissima prova anche la capacità dello psicoterapeuta di gestire il proprio “controtransfert”.
Il più delle volte, ci si deve accontentare di non far precipitare una situazione già in grande bilico, e complicata da variabili socioeconomiche (il drastico e spesso gravissimo impoverimento economico, la perdita della propria abitazione, il ritorno a quella dei genitori e spesso della propria adolescenza, l'isolamento sociale, ecc.) che tendono a renderla ingovernabile.
Tuttavia, dopo qualche tempo ci accorgemmo che l'aver ottenuto alcuni risultati nella gestione del dolore e della rabbia, in alcuni, sporadici, casi si trasformava in piccole, ma significative, modifiche nel rapporto con i figli “alienati” a riprova di come l'alienazione genitoriale sia –quanto lo sono d'altra parte molto patologie adolescenziali riconosciute come tali- una forma che, sindrome, malattia, o problema che sia- è, a volte almeno, molto sensibile alle modifiche al comportamento dei congiunti, e -in questo caso- alle modifiche di comportamento del genitore alienato. 
 Nel giro di qualche anno sviluppammo dunque una sorta di know how conoscitivo che sembrava portare a diversi risultati nei contesti psicoterapici che riuscivamo a strutturare, e che non sempre si potevano identificare con i setting psicoterapeutici classici, anche e soprattutto in virtù della atipia della domanda che ci giungeva.
Il più delle volte, a rivolgersi a noi erano i padri, perché innegabilmente in testa alle statistiche della deprivazione genitoriale, e ciò comportava che il più delle volte la domanda che ci raggiungeva era una domanda confusa e confondente tra istanze giuridiche, consulenze forense inutili, e una nascosta -e per questo ancor più disperata- richiesta di ascolto. Questo ci ha spinto a dover strutturare modelli di intervento abbastanza inusuali, che dovevano essere in grado di rispondere a richieste confuse, nascoste, non presentate come richieste di terapia, spesso di difficile decrittazione e dunque di difficilissima restituzione, non raramente colme di rabbia anche verso lo psicoterapeuta interpellato.
Nel tempo ci siamo resi conto che esisteva non tanto un vero e proprio set di strumenti terapeutici -di prescrizioni, di strategie, di “consigli”, cioè- ma una filosofia di fondo dalla quale partire per cominciare a orientarsi in quel tipo di consulenza e giungere ai primi risultati: la gestione da parte del genitore alienato del proprio comportamento, in modo che non refluisse distruttivamente verso i due opposti poli che gli si profilavano -l'acting out distruttivo e/o la somatizzazione ingravescente.
Non raramente, infatti, la maggior parte dei padri che si rivolgevano a noi si erano scoperti ipertensioni, disturbi del ritmo cardiaco, dermopatie -prima fra tutte la psoriasi- gastropatie e in special modo “gastriti” e sindromi da reflusso-, sindromi dismetaboliche, ecc., costringendoci anche a ritornare a forme di consulenza medica vera e propria, che dovevano comunque fare i conti con il disagio socioeconomico del genitore deprivato del figlio. 
L'impostazione di fondo con la quale affrontare questi casi però si andava sempre più delineando, e questo ci ha portato alla fine a coagulare il tutto in un orientamento di fondo: quello che nel capitolo successivo verrà descritta attraverso la riscoperta del mito di Ulisse, colto nel momento del suo rientro a Itaca, in una casa infestata da coloro che -non a caso- vogliono sottrargli tutto quello che ha di più caro.  
Da questo indirizzo, pensato come tale perché rivolto soprattutto ai padri, si è sviluppato un modello operativo che è stato poi comunque utilizzato anche con le madri, perché ovviamente distante da qualsiasi tipizzazione di genere. 

5.1.3. La cicatrice paterna: frattura e possibilità di ricostruzione del legame padre figlio nei casi di mobbing genitoriale
dr. Gaetano Giordano
dr.ssa Benedetta Rinaldi
dr. Marco Muffolini


Il ruolo del padre oggi è riconosciuto dagli esperti delle dinamiche relazionali familiari, per la sua cruciale importanza nel favorire lo sviluppo comportamentale, emotivo e intellettivo dei figli, ma tale considerazione è stata – e lo è ancora! - il frutto di una faticosa conquista dell'uomo nel corso dei secoli: una conquista che, è bene ricordare, è eminentemente culturale, differentemente da quanto è avvenuto per la madre che ha assunto biologicamente e naturalmente le sue funzioni di procreazione e di cura verso la propria prole (Zoja, 2000).
Luigi Zoja, importante psicoanalista junghiano che ha studiato la costruzione della figura paterna dalle sue origini seguendo un percorso filogenetico, nel suo libro “Il gesto di Ettore” (2000) sostiene che durante la sua evoluzione la specie umana si sarebbe accorta di come la presenza paterna avesse una funzione peculiare favorente la crescita e la protezione della prole.
Il padre quindi è passato dall’essere primitivo che concepisce spargendo il suo sperma indistintamente, a colui che concepisce inteso come cum capere, ovvero in grado di prendere con, accogliere, contenere, apprendere, immaginare, ricevere nell’animo.
E' da questo momento che l'uomo ha iniziato a sviluppare il legame con i figli, conquistando quello status che non ha ricevuto dalla natura, ma grazie ad un percorso culturale e sociale per il quale ancora oggi lotta affinché gli venga riconosciuto.
Il ruolo del padre storicamente è stato considerato, in ambito giuridico, come non fondamentale per l’educazione e lo sviluppo psicofisico dei figli, tanto che nella stragrande maggioranza dei casi, i figli di genitori divorziati vengono automaticamente affidati alla madre, quale depositaria esclusiva della tutela dei minori, questo a partire dalla Legge 898/1970 che indica come principale prassi quella dell’affidamento esclusivo ad un genitore, sulla base di un supposto interesse morale e materiale dei minori, relegando così il padre ad una mera funzione di mantenimento economico.
Sono dovuti trascorrere altri 36 anni affinché il Legislatore introducesse quella che oggi è riconosciuta come “legge dell’affido condiviso” (Legge 54/2006) restituendo ad entrambi i genitori, almeno formalmente, la cura e la responsabilità della formazione dei figli: tale legge infatti afferma che i figli hanno diritto a mantenere un rapporto equilibrato con ciascuno dei genitori anche nel caso in cui questi giungano ad una separazione e che la potestà genitoriale è esercitata da entrambi.
Sebbene negli anni, grazie alla costituzione di movimenti a sostegno della bi-genitorialità sono stati raggiunti - almeno in teoria - degli obiettivi di promozione culturale e sociale, legati alla crescita e alla responsabilizzazione della diade genitoriale, l’evento della separazione rimane un momento di rottura, non solo del nucleo familiare ma anche degli equilibri relazionali che lo compongono. Spesso infatti l’espressione della bi-genitorialità è messa a rischio fin dal momento in cui la coppia decide di separarsi a causa di un aspro conflitto coniugale che si ripercuote sulle competenze genitoriali, mentre i figli si ritrovano all’interno di ripicche e vendette tra gli adulti di riferimento. Siamo abituati a considerare il nostro concetto di famiglia come sinonimo di unità di intenti in cui i membri del gruppo tendono a convergere per un comune obiettivo esistenziale; la separazione in questo senso è il fattore scatenante di desideri individuali, spesso contrapposti, relativi a dimensioni affettive, relazionali, economiche e di potere, dove c’è chi vince e chi perde, secondo la logica della contrapposizione.
Da quando è stato istituito il divorzio ad oggi, la logica della contrapposizione ha dominato gli scenari giuridici ed emotivi di tutte le parti in causa, alimentando un pulviscolo di agiti istintuali, ovvero quel mettere in atto, senza consapevolezza, di desideri, paure, angosce, rivendicazioni e pretese che continua a negare nei fatti quella bi-genitorialità che riconosciamo solo legislativamente e alla quale ci appelliamo elemosinandola, senza renderci conto di quanto ancora culturalmente tutte le componenti, a partire da quelle giuridiche (giudici, avvocati) la neghino.
Riteniamo che un ruolo cruciale in questo senso sia quello assolto dal linguaggio.
Genitori, avvocati, giudici, giornalisti, opinionisti, talk show, programmi d’approfondimento e tutti gli altri agenti interessati alla questione hanno mutuato un linguaggio, tipico del conflitto, che confina colui che si esprime e il contesto stesso, all’interno di un recinto narrativo dove non c’è spazio né per l’espressione pensata del proprio o dell’altrui vissuto, né per la costruzione di alcunché, in quanto, tale linguaggio risulta per definizione inadeguato, legato a logiche di contrapposizione e incapace di esprimere le complessità di una condivisione che non può che partire dal pensiero e l’espressione dello stesso.
Come ovvio, tale clima influenza sempre più il clima conflittivo che si sviluppa in una famiglia in via di separazione, e finisce per divenire una legittimazione sociale e culturale al conflitto come chiave di risoluzione delle controversie genitoriali.
Questo ha fatto si che fosse considerato ormai normale non solo il conflitto tra i due ex coniugi, ma anche le strategie utilizzate per escludere l'altro dalla gestione della prole. Come abbiamo visto, già da tempo anche la cinematografia nazionale ha recepito, con ironia (il che esprime quanto l'atteggiamento sia ormai di uso corrente e considerato in qualche modo “scontato”) il fatto che a dirimere una causa di separazione entri un utilizzo calunnioso del codice penale.
Allo stesso modo, per un paio di decenni almeno, il fatto che il padre potesse essere escluso dalla gestione dei figli è stato considerato un evento forse non normale (esiste -e prima esisteva ancor di più- il fenomeno dei padri che si assentavano volontariamente dalla vita dei figli, dopo la separazione), ma sicuramente accettabile, e il desiderio dei padri separati di non essere esclusi dalla vita dei figli, una sorta di rivendicazione a volte anche folcloristica.
Ciò ha comportato sicuramente dei problemi: l’uomo non affidatario, oltre a doversi confrontare come abbiamo visto, con una serie di limitazioni imposte dall’alto extra-familiare, ha dovuto fare i conti con la propria identità di padre da ricostruire, distante da quella madre, che è stata fondamentale per la sua formazione, portatrice di un bagaglio biologico-culturale fondato sull’accudimento della prole e in grado di accompagnare anche il padre nella valorizzazione di quel ruolo che è altrettanto importante.
Ed è stato partendo da queste considerazioni che siamo andati alla ricerca di uno specifico del “ritorno del padre” in famiglia, quasi spingendoci a cercare una cultura dedicata a questo tema.
Che ci ha dato risultati importanti e interessanti, suggestivi anche per quanto riguarda il punto di vista clinico.
Studi recenti (Dowling, Barnes 2004) hanno messo in evidenza come la maggior parte di ciò che i padri vivono con i figli è quasi costantemente condiviso o dipendente dalle indicazioni della madre: ciò significa che il comportamento paterno risulta inevitabilmente legato allo status di “coppia”, quella stessa coppia che nei casi di divorzio non può più rappresentare il contesto attraverso il quale il padre può esprimere la sua genitorialità.
L’uomo, diversamente dalla donna, non può identificarsi sin dalla nascita con il corpo della madre, perciò tende a svilupparsi nel tempo continuando a demandare alla donna la capacità ed il potere di appagare i suoi bisogni e di riempire, a proprio arbitrio, il suo vuoto di affetti, rischiando tuttavia di scadere a oggetto del potere materno. L’uomo allora, per difendersi dal suo stesso desiderio di passività dipendente, ipertrofizza il modello di comportamento paterno arcaico (Montefoschi, 2001) che demanda la cura della prole alla moglie, restando in seguito vittima di quel modello relazionale rigido.
Uomo e donna, seguendo l’imprinting originario della madre che nutre e del bambino che viene accudito, si sono evoluti conservando tra di loro una relazione asimmetrica basata sull’interdipendenza simbiotica dei bisogni, che si esprime, culturalmente e politicamente, attraverso rapporti sociali fondati sul reciproco asservimento (Montefoschi, 2001)[3].
L’uomo non riuscendo a raggiungere la capacità di essere consapevolmente autonomo rispetto alla gestione relazionale dei figli, tende ad affidare alla donna il potere di controllarlo attraverso quella che in seguito può esitare in una svalutazione attiva e costante del ruolo paterno, fino ad una interruzione dei rapporti padre-figli.
Questo aspetto è significativo se cerchiamo di comprendere i motivi che espongono i padri ad una maggiore vulnerabilità e al mobbing genitoriale: le vittime di mobbing lavorativo e familiare possono essere soltanto coloro che il sistema identifica come deboli o di difficile controllo. In tal senso il padre separato, nella nostra cultura, rappresenta quello che nel gergo psicologico viene chiamato il “paziente designato”: tale termine significa che il paziente è il membro del sistema-famiglia che esprime o segnala il meccanismo disfunzionale di uno o più sistemi, di cui egli è uno dei vertici. Tale membro è "designato" dal sistema stesso in quanto soggetto che esprime una modalità disfunzionale di vivere, pensare, agire.
Il padre, dopo la separazione, viene limitato legalmente nell’esercizio della sua genitorialità e, dipendente dal ruolo familiare che ha perso, si ritrova a dover costruire da solo un set di comportamenti, atteggiamenti, vissuti emotivi da condividere con i figli, senza un sostegno sociale e culturale, oggi più che mai indispensabile, affinché il padre possa sviluppare una propria specificità indipendente da quella materna.
Potremmo quindi sostenere che è la madre colei che, agendo la sua aggressività e controllo, designa l’ex marito come vittima di un’esclusione dal sistema, eppure ad uno sguardo più approfondito ci renderemo conto che anche l’uomo si è inconsapevolmente lasciato coinvolgere in quella spirale violenta, a causa dell’equilibrio precario sul quale ha costruito la propria figura di padre, ma scendendo ancora di più in profondità apparirà più chiaro come non basti un singolo attore a designare la sua vittima, ma esiste un sistema allargato che ha indirettamente favorito un humus aggressivo e controllante, ovvero il sistema culturale e giudiziario in cui si sviluppano le future madri e i futuri padri.
A nostro avviso è di fondamentale importanza iniziare a promuovere una cultura scientifica e sociale in cui la paternità possa emergere dall’ombra della madre, come dimensione di cui prendersi cura attraverso progetti di sostegno e valorizzazione, e soprattutto liberandola dalla logica della contrapposizione padre contro madre, uomini contro donne. Uno dei pochissimi aspetti culturali in cui i padri sono “previsti” durante l’iter della gravidanza sono i famosi corsi pre-parto e in alcuni casi il parto stesso, dopodiché i padri scompaiono sia per il mondo medico-psicologico che per quello socio-culturale (ad esempio non è un caso che spesso, pur lavorando, sono le madri a intrattenere le relazioni con il mondo della scuola o con il gruppo dei pari).
Lo stesso mondo della psicologia si è lungamente confrontato sulle competenze materne, tralasciando in secondo piano l’importantissimo ruolo del padre, spesso relegato al compito di chi detta le leggi e si occupa economicamente della famiglia.
E’ necessario sviluppare un pensiero complesso (clinico, sociale, culturale, legislativo) per riportare il padre alla sua prerogativa genitoriale e affettiva, scongiurando il pericolo della sottomissione al potere materno distruttivo e in questo senso il Mito ci ha tramandato molti esempi di paternità, densi di significato e attuali.
Zoja percorrendo lo sviluppo mitologico e psicologico della figura paterna (2000) mette in evidenza come la paternità non sia una questione meramente biologica ma sia una ricerca, un viaggio, che l’individuo deve intraprendere per riuscire a riconoscere sé stesso e i propri figli.
E Ulisse - l’eroe del poema omerico “Odissea” – è secondo Zoja il sorprendente emblema dell’uomo moderno, che si mette in viaggio per ritrovare il suo ruolo paterno e familiare.
Omero descrive Ulisse come un uomo combattuto “tra il pensiero e il cuore”, ovvero tra la razionalità e l’istinto, e proprio l’istinto, l’impulsività, la tendenza a reagire spesso mettono a dura prova gli individui proprio durante momenti critici come il divorzio.
Davanti alle angherie e alle violenze morali (e a volte non morali) spesso perpetrate dalle ex compagne e dal contesto sociale e giudiziario, i padri sentono di “dover agire, dover combattere”, insomma uscire al più presto possibile e “con forza” dalla spirale di manipolazione in cui si trovano.
I termini stessi utilizzati dai padri (“devo combatteredevo reagiremi devo far giustizia”) fanno proprio riferimento al loro sentirsi in guerra, vittime di un’invasione sadica, in cui la sensazione di morire da un momento all’altro, perdendo tutto ciò che si è costruito – affettivamente, economicamente, socialmente – è fortissima.
Purtroppo non sono rari i casi di padri balzati alle cronache per aver ucciso i figli o l’intera famiglia in seguito ad una situazione di mobbing genitoriale che era diventata emotivamente distruttiva.
I vissuti dei padri mobbizzati sono molto penosi e devono essere compresi e contenuti proprio per evitare simili escalation di violenza intrafamiliare.
Padri protagonisti di episodi di cronaca come quelli da noi seguiti, spesso rimangono vittime delle proprie reazioni istintive, figlie di quella logica della contrapposizione che in risposta ai soprusi subiti non fanno che esporli ad ulteriori accuse (ad esempio di essere aggressivo, paranoico, di spaventare il bambino etc.) generando quindi un risultato opposto a quello voluto.
I padri tentano cioè di risolvere il conflitto in cui si trovano attraverso il conflitto stesso, senza rendersi conto che il mezzo attraverso il quale si è cercata la soluzione, è in realtà il problema. Nel prossimo paragrafo vedremo come, a partire da questi aspetti, si possa tentare di promuovere un percorso di riabilitazione e cura della figura genitoriale alienata.
Nei paragrafi precedente abbiamo illustrato come lo studio e la ricerca formale sul fenomeno del mobbing genitoriale abbia avuto inizio circa 10 anni fa (Giordano, 2004) eppure sull’intervento vero e proprio nei confronti del sistema familiare colpito, non è stato ancora pubblicato nulla e questo per un motivo di base specifico: quando all’interno del nucleo familiare si è costruito progressivamente un grave comportamento alienante, o tendenzialmente tale, ogni invito alla terapia fallisce in quanto ormai il disagio è “ego-sintonico” rispetto al funzionamento del sistema: i soggetti coinvolti non credono di essere affetti da un grave disagio relazionale, ma sono impegnati ad individuare all’esterno il colpevole che produce il malessere (un po’ come un soggetto affetto da psicosi il quale, non avendo consapevolezza del proprio malessere, cerca soluzioni e risposte nei suoi deliri). In questo modo è estremamente difficile che il sistema formuli spontaneamente una domanda di aiuto.
Allo allo stesso modo, come detto precedentemente, anche per il contesto sociale è spesso stato “normale” che un padre separato vedesse sempre meno o per niente i propri figli.
Il padre deprivato dei figli, dunque, andava incontro a una serie di problematiche psicologiche e fisiche che l'isolamento sociale, e l'indifferenza con cui veniva accolto il suo status, lo rendevano sempre più soggetto di patologie e comportamenti percepiti come “disfunzionali” e, in quanto tale, sempre più considerato in qualche modo meritevole di avere perso il contatto con i figli.
L'emergere sempre più pressante di una cultura delle “Pari Opportunità”, che assegnava di diritto nuovi ruoli e nuove responsabilità alle donne ma lasciava -stranamente- inalterati i “privilegi” delle madri di sentirsi le assegnatarie di default e di fatto dei figli, e dei relativi vantaggi economici, esasperava la situazione.
Come detto precedentemente, questo ci ha spinto a cercar di metter rimedio ai numerosi casi che si presentavano alla nostra osservazione, cercando di evidenziare gli aspetti più salienti del mobbing genitoriale suscettibili di intervento, un intervento pensato di fondo come “strategico” e “sistemico” e studiare così una serie di strategie di intervento per ridurre il danno e in alcuni casi risolvere la dinamica conflittuale.
Il primo aspetto è legato al contesto conflittuale in cui si esprime la relazione tra genitore alienante e alienato: la violenza dei comportamenti agiti dal genitore mobbizzante (costituiti da insulti, svalutazioni, manipolazioni, ricatti verso i minori, diffamazioni etc.) e l’intervento del sistema giuridico chiamato ad intervenire dai coniugi (avvocati, giudici, assistenti sociali etc.) che spesso collude con la logica della contrapposizione delle parti, elicitano o anche determinano una reazione comportamentale disadattiva nel genitore alienato, che purtroppo finisce spesso per legittimare, attraverso i suoi comportamenti, le accuse che gli vengono mosse: questo significa che più il genitore alienato cerca di reagire alle angherie del coniuge per riappropriarsi del suo ruolo genitoriale con gli strumenti che ha a disposizione, più facilmente si mette nella condizione di favorire il comportamento di estromissione che andrà poi a subire.
Per questo il primo intervento che mettiamo in atto quando un genitore alienato ci chiede un aiuto è la cosiddetta “analisi delle tentate soluzioni”: secondo il paradigma della terapia strategica, che riteniamo estremamente efficace in questo tipo di problematiche, quando un soggetto chiede un intervento psicoterapico per un problema, è verosimile che egli abbia già da solo cercato di risolverlo attraverso una serie di pensieri o azioni che tuttavia si sono rivelate inefficaci.
Un esempio è quello di un padre che racconta di come, in seguito alla separazione, la moglie gli abbia impedito in vari modi di avere una serena e quotidiana relazione con i figli. In molti casi la tentata soluzione che i padri possono mettere in atto è quella ad esempio di presentarsi a casa della ex moglie chiedendo con forza di vedere i figli, oppure minacciare la moglie di querela, o ancora di mettere al corrente i figli di quanto la madre si stia comportando male.
In questi casi l’analisi e la discussione delle soluzioni tentate dal paziente ci permette di far capire al padre come quest’ultime siano in realtà il problema che promuove e cronicizza il conflitto: più il padre si adira ed entra in simmetria con i comportamenti aggressivi agiti dalla ex moglie, più si metterà nelle condizioni di vedere il suo ruolo rispetto ai figli - e anche dal punto di vista legale – compromesso.
Il nostro obiettivo sarà quindi aiutare il genitore mobbizzato a riconoscere e a gestire le tentate soluzioni che corrispondono paradossalmente a reazioni controproducenti rispetto alla sua funzione genitoriale, e questo utilizzando delle tecniche innovative e costruite ad hoc, ma specificatamente di origine strategica e ispirate tutte alla filosofia del “Ritorno di Ulisse”.
Ma perché il mito di Ulisse può aiutarci a comprendere quella che a nostro avviso è una via alternativa per risolvere, o attenuare, la tragedia del genitore mobbizzato?
Ulisse re di Itaca, dopo dieci anni passati a Troia a causa della guerra vorrebbe ritornare agli affetti familiari, dalla moglie Penelope, dal figlio Telemaco e alla nativa Itaca, ma l'odio del dio Poseidone, glielo impedisce provocando continui incidenti e mirabolanti peripezie per altri dieci anni, alla fine dei quali riesce di nuovo a raggiungere casa. Ma il suo ritorno in famiglia sarà tutt’altro che semplice infatti Ulisse trova la sua reggia invasa dai Proci, i quali vogliono usurpare il suo trono, impadronendosi della casa e della moglie Penelope.
Ulisse scopre l’accaduto ma invece di reagire istintivamente, combattendo subito contro i Proci, decide di aspettare il momento più opportuno per riconquistare il regno e la sua famiglia e quindi decide di celare la propria identità fingendosi un mendicante, anche con lo stesso figlio Telemaco. “Il volere di Ulisse è pensiero e non più pulsione, quindi può essere trattenuto. Ciò porta due novità che sono anche due rinvii: l’attendere l’occasione esterna propizia, quando essa non è ancora disponibile e il pazientare fino a che le due alternative non trovino una sintesi interiore” (Zoja, 2000) … Ulisse desidera la famiglia sopra ogni altra cosa: ma sa che il soddisfacimento immediato è proprio la tempesta in cui il padre e i suoi si separano. Il ricongiungimento con la famiglia non è un impulso soddisfatto, ma privazione e progetto”.
La tattica utilizzata da Ulisse è quella di non lottare esplicitamente, non volendo vincere subito a tutti i costi: egli si rimpicciolisce, si rende umile come un mendicante poiché non è interessato tanto ad agire un’azione nobile in sé ed eclatante, piuttosto è interessato al vantaggio che finalmente potrà ottenere: la conoscenza nell’immediato e la riconquista della sua famiglia nei tempi lunghi. E per queste cose è pronto a pagare il prezzo dell’attesa.
Questa è proprio la strategia che riteniamo possa aiutare i padri mobbizzati ad uscire dal tunnel in cui si trovano: il padre, con coraggio e comprensibile fatica, deve accettare di uscire dall’atteggiamento di contrapposizione nei confronti della ex-moglie, poiché questo significa inevitabilmente opporsi anche contro il figlio che, vittima inerme, è fagocitato dall’angoscia di mettersi contro la madre dichiarando il suo legittimo e struggente bisogno del padre.
Il padre deve rimpicciolirsi, fingersi mendicante, attenendosi a quanto imposto dal giudice e manipolato dalla moglie, per riconquistare non nell’immediato, ma nel lungo termine il rapporto con il figlio. La presenza paterna deve farsi “piccola nella quantità”, ma significativa nella qualità delle interazioni possibili, per ricordare al figlio che il padre, seppur lontano, c’è: fare al figlio piccoli regali inattesi (un pelouche, un set di pennarelli nuovi etc.) permette al bambino di sentire la presenza costante, ma non ansiogena, del genitore.
Questo comportamento consente al figlio di incamerare, a lungo termine, i sentimenti di rispetto, pazienza e coraggio veicolati da quel padre che così facendo non lo ha costretto a mettersi contro la madre o a sentirsi in colpa per l’inevitabile alleanza con il genitore affidatario.
L’idea è quella di sfruttare la forza dell’aggressore per volgerla al proprio guadagno.
Ulisse ci dimostra come una simile presa di posizione giocata sull’apparente arrendevolezza, sia un passaggio necessario per vincere contro i Proci, gli arroganti e caotici invasori del luogo familiare.
Nonostante il suo farsi povero e quasi invisibile, il re di Itaca mostrerà al figlio il valore dell'attesa e la forza dell'umiltà: dice Zoja (2000) “la sua pazienza e la sua umiliazione contrastano con la violenza inutile. Se [gli uomini] vi riescono, ci restituiranno la potenza del padre senza la prepotenza maschile. Se non hanno successo, si avrà il maschio violento senza l'autorità”.
In fondo la grande forza di Ulisse è racchiusa nella saggezza di sapere che egli ha sempre presente l’alternativa da giocare nella vita.




5.1.4. Il ritorno di Ulisse2: strategie di intervento nel mobbing genitoriale
- Maestro, come evitare il temporale?
- Ecco che lo hai già dentro
da: Yoel Hoffmann, "I detti del maestro Joshu", Astrolabio Ubaldini Editore
Nota: nella logica zen, pensare al “temporale” come un temporale, realizza il “temporale”.


Nei casi di mobbing genitoriale, e soprattutto nei casi in cui è molto presente la svalutazione della figura genitoriale nei confronti dei figli, la regola è l'attivarsi di un contesto paradossale, nel quale l'accusa contro l'ex genitore si avvera grazie al fatto che il genitore mobbizzato reagisce all'accusa tentando di smentirla.
Nel trattare questi casi, abbiamo sviluppato la convinzione che il modo migliore per gestire -meglio: tentare di gestire- un simile contesto, è non cercare di dimostrare la falsità dell'accusa, ma cercare di rispondere, o non rispondere, in modo che l'accusa si annulli, o meglio: perda la sua efficace proprio perché ha bisogno di convalidarsi attraverso i comportamenti dell'ex partner.
Ovviamente, quanto stiamo qui esponendo vale nell'attuale contesto sociogiudiziario, nel quale non esiste quasi, o proprio per nulla, la possibilità che le istituzioni attuino un intervento efficace.
Quanto stiamo cioè dicendo si riferisce ai genitori deprivati dei figli, isolati e abbandonati nei loro tentativi di uscire dal problema, e in assenza di interventi, e di interventi efficaci (quando non controproducenti, come visto), da parte delle “istituzioni”.
Non ci riferiamo cioè a suggestioni che pensiamo possano essere raccolte in aule di Tribunale o nel corso di consulenze tecniche, posti e situazioni nei quali la tutela del genitore mobbizzato dovrebbe essere di tutt'altro tipo e non limitarsi, come spesso avviene, a generici (e convenienti solo per chi li pone) inviti a rassegnarsi e lasciar perdere. Se i tribunali e i tecnici, cioè, devono intervenire, dovrebbero farlo non invitando il genitore alienato a rinunciare a ciò che per prima la legge dovrebbe garantire, ma dandogli quanto e ciò che gli spetta.
Ciò premesso, il primo punto su cui agire è dunque la gestione del comportamento del genitore alienato, che in genere sembra fare di tutto per confermare le accuse che gli vengono rivolte e per qualificarsi, agli occhi dei figli, esattamente per come viene descritto ad amici, parenti, e, soprattutto, figli.
Questo è un aspetto fondamentale, e spesso drammatico: si tratta di convincere gente che soffre terribilmente, a tacere e a non cercare di “reagire” a privazioni terribili, illegittime e illegali.
Spesso si riesce a spiegare al genitore alienato (o mobbizzato, i termini sono qui utilizzati come sinimi) il valore della rinuncia, come sistema di gestione del messaggio negativo che “l'altro fabbrica contro il paziente, altre volte no. In genere è efficace il paragone con le arti marziali orientali, di fondo strutturate sulla gestione dell'energia dell'avversario in senso paradossale per sbilanciarlo (“se lui spinge, tu tiri, se lui tira, tu spingilo”). Sicuramente, si deve operare una “collusione terapeutica” (o una “alleanza terapeutica”) col genitore mobbizzato, parlando un linguaggio di guerra e conflitto, dal momento che il livello persecutorio, in questi casi, è talmente alto, che un qualsiasi accenno ad una prospettiva pacificatoria viene percepita come un tradimento. Una buona tecnica, poi, è quella che i terapisti strategici definiscono del “come peggiorare”: facendo cioè immaginare a chi si ha di fronte cosa si dovrebbe fare per far precipitare ancor di più la situazione, si ottiene molto frequentemente il risultato di convincere il genitore mobbizzato che più tenta di ottenere ciò che desidera (e che, si badi, è più che egittimo che ottenga), meno ottiene.
D'altra parte, vero è che non può esserci effettivamente pacificazione, in questi casi, dal momento che il conflitto è sempre tenuto alto soprattutto dal genitore mobbizzante, e dunque il vero obbiettivo è quello di annullare “l'attacco” di cui il genitore mobbizzato si sente (ed è davvero, in fondo: un fondo che però non deve esser vissuto persecutoriamente, per dar corpo alle proprie ombre) ed è davvero, dicevamo, vittima.
Una volta che si riesce a concretizzare come valido l'assunto che non bisogna opporsi agli attacchi ma favorirli invece di disperderli, occorre passare ad analizza con estrema profondità il “contesto mobbizzante”, e cercando di individuare quali sono le modalità che più offrono spunti per una gestione “strategica”.
La regola di fondo è comunque quella di escogitare quali comportamenti tendano a far fallire le aggressioni del genitore mobbizzato, e una delle “rinunce” che più ottengono effetto è proprio la rinuncia a pretendere gli incontri. Ovviamente, parliamo di situazioni nelle quali il rifiuto alle visitazioni non è ancora in atto da anni, ma nelle quali i minori rifiutano i contatti pur mantenendo qualche visita.
Il primo obiettivo è infatti quello di stabilizzare la relazione con i minori, in quanto nella nostra esperienza gran parte delle situazioni di alienazioni parentale nascono da -o forse “con”, ma la cosa non cambia di molto la realtà del contesto e dei tentativi di rimedio- una tragica angoscia dei minori coinvolti, che si percepiscono in mezzo a una terribile bufera e possono solo cercare riparo, esterno ma anche interno, nel genitore alienante, per non mettere a rischio la propria sicurezza (che viene percepita anche come sicurezza fisica vera e propria, dal momento che il genitore alienante ha sempre qualcosa di oscuramente minacciante e terribilmente ritorsivo, la cui contropartita è una sorta di alleanza partnerizzante che sfocia poi nell'arruolamento alienato).
Il bisogno di integrare il modello accusatorio del genitore alienante nasce qui dal bisogno sia di una sicurezza esterna, sia dal bisogno di percepirsi coerenti, e non colpevoli invece di “tradimento” ai danni del genitore alienato.
Quando si va dunque ad agire in un contesto mobbizzante, bisogna dunque aver massimo riguardo per questo drammatico equilibrio del figlio alienato, e le possibilità di recupero da parte del genitore alienato passano dal riuscire quanto più possibile a non metterlo “contro sé stesso” e “contro i propri sensi di colpa” -spesso grandemente nascosti- e cercando di non offrire alle sue “proiezioni” la legittimazione che il genitore mobbizzante e alienante cerca di avere attraverso le sue accuse (“Ricordi che tu rischi di essere la pallottola con cui ti spareranno, se insisti a combattere”, è una delle nostre frasi preferite).
In questi casi, dunque, la rinuncia agli incontri -accompagnata dalle comunicazioni di cui diremo oltre- può avere un effetto destabilizzante sul contesto mobbizzante e sul comportamento del genitore alienante e su quello dei minori, e nel tempo si può assistere a quello che per qualcuno è stato un miracolo. Quello che accade è che viene “sbilanciata” la dimensione collusiva della coppia, e fatta svanire la legittimazione alla “proiezione” della propria parte negativa sul genitore mobbizzato.
Come detto prima, in realtà, questa rinuncia agli incontri va accompagnata da una serie di comunicazioni minimali, se non “virali”, con le quali si comunica ai figli la propria presenza affettiva nel rapporto, il proprio non voler perdere i contatti, e via dicendo senza far mai cenno – se non in alcuni casi selezionati- ai motivi per cui si preferisce rarefare o minimizzare frequenza e tempi degli incontri.
Sms, email, regalini con bigliettini brevissimi e/o fatti consegnare da qualcun altro, sono in questi casi efficaci, spesso anche incredibilmente efficaci: in molti casi, si ha la netta sensazione che più le comunicazioni riescono ad essere “minimali”, più i minori tendono -con il tempo (la pazienza e la resistenza alla frustrazione sono essenziali)- a riassestarsi in modo non oppositivo verso gli incontri con il genitore mobbizzato.
In sostanza, bisogna in qualche modo rifarsi alla filosofia di Lao Tzu, il fondatore del Taoismo, e riuscire a render concreta la sua Regola Celeste:
Trenta raggi convergono sul mozzo,
ma è il foro centrale che rende utile la ruota.
Plasmiamo la creta per formare un recipiente,
ma è il vuoto centrale che rende utile un recipiente.
Ritagliamo porte e finestre nella pareti di una stanza:
sono queste aperture che rendono utile una stanza.
Perciò il pieno ha una sua funzione,
ma l'utilità essenziale appartiene al vuoto
(Lao Tzu, La regola Celeste, http://www.aurorablu.it/libri/lao_tzu.htm )


Bisogna cioè far sì che lo spirito della affettività e della presenza paterna giungano al figlio tanto cercato e tanto lontano attraverso il vuoto e l'assenza, anziché attraverso la presenza, e dai pochi ritagli di parole che gli si inviano egli legga -ed i figli in questo sono maestri di spaventosa sensibilità- quello che il padre vuole non tanto dirgli, ma fargli sapere e soprattutto “sentire”.


E' evidente comunque che per strutturare una valida comunicazione “virale”, in questi casi, bisogna cercare di conoscere a fondo le logiche del sistema mobbizzante, nonché le affettività e quanto più possibile delle realtà e modalità cognitive degli adulti e dei minori coinvolti.
Bisogna comunque premettere che questo tipo di “suggerimenti” ovviamente, sono sempre accolti all'inizio da inevitabile incredulità da parte del genitore mobbizzato, che rivendica sempre la validità dello scontro e del cercare di ottenere “sempre più” di quello che gli viene dato “sempre meno” più lui lo chiede “sempre più”. Uno dei punti da chiarire con fermezza, come detto in altri termini precedentemente, è che non si tratta affatto di “dar ragione” all'altro genitore, o cedere alle sue richieste e accuse giudiziarie ed economiche.
Si tratta ovviamente di sbilanciare un sistema fondato sulla ricorsività del conflitto.
La vittoria di Ulisse arriverà, esattamente come dice il mito, dopo che si sarà riconquistato il proprio figlio a sé stessi e alla relazione con il padre.
Surse, e spogliossi de’ suoi cenci Ulisse,
E sul gran limitare andò d’un salto,
L’arco tenendo, e la faretra. I ratti
Strali, onde gravida era, ivi gittossi
Davante ai piedi, e ai Proci disse: A fine
Questa difficil prova è già condotta.
Ora io vedrò, se altro bersaglio, in cui
Nessun diede sin qui, toccar m’avviene,
E se me tanto privilegia Apollo.
Così dicendo, ei dirigea l’amaro
Strale in Antinoo. Antinoo una leggiadra
Stava per innalzar coppa di vino
Colma, a due orecchie, e d’oro; ed alle labbra
Già l’appressava: nè pensier di morte
Nel cor gli si volgea.
Chi avria creduto,
Che fra cotanti a lieta mensa assisi
Un sol, quantunque di gran forze, il nero
Fabbricar gli dovesse ultimo fato?
Nella gola il trovò col dardo Ulisse,
E sì colpillo, che dall’altra banda
Pel collo delicato uscì la punta.
Ei piegò da una parte, e dalle mani
La coppa gli cadè: tosto una grossa
Vena di sangue mandò fuor pel naso;


Percosse colle piante, e da sè il desco
Respinse; sparse le vivande a terra;
Ed i pani imbrattavansi, e le carni.
(Odissea, Trad. di I. Pindemonte, Libro Ventiduesimo)


Purtroppo non è possibile descrivere ora tutte le modalità e le tecniche utilizzate, soprattutto perché ogni volta bisogna adattare qualcosa di precedente al contesto che si ha di fronte, ma sicuramente i risultati ci sembrano incoraggianti.
Un'altra serie di tecniche utilizzate, nel caso i rapporti tra i genitori consentano ancora qualche contatto, anche aggressivo e conflittuale quanto si vuole, è la riedizione di alcune tecniche di direzione strategica dei comportamenti, nei rapporti fra il genitore mobbizzato e quello mobbizzante. Si tratta di riuscire a strutturare sottilissime forme di “prescrizioni del sintomo”, “diari di bordo”, “rituali”, prescrizioni strategiche che apparentemente diano soddisfazione al genitore mobbizzante ma in realtà ne paralizzino le tattiche.
Ovviamente, anche qui bisogna studiare a fondo il sistema e capire quale parte delle comunicazioni e delle relazioni può essere utilizzata in tal senso: ad alcuni ex coniugi può essere chiesto ad esempio di indicare con straordinaria precisione i compiti da eseguire in caso di incontri con i figli, ad al riguardo invece di descrivere con accuratezza come rapportarsi con i figli quando li si incontra, fino a tecniche molto più complesse e minuziose, che hanno spesso lo scopo di imbrigliare anche -già che ci siamo, viene spesso da dire- l'aggressività del genitore mobbizzato, ansioso di vendette e vittorie.
Da questo punto di vista, è infatti interessante notare come il paradosso che immobilizza il genitore mobbizzante, modifica anche la percezione che il genitore mobbizzato ha del problema e del suo essere nel conflitto. Segno anche questo di come molto probabilmente le psicopatologie in gioco continuano ad operare comunque e in modo collusivo anche quando genitori non comunicano e sono lontanissimi dal sentirsi “una coppia


5.1.5. I risultati e le statistiche
Non riteniamo di avere ancora la possibilità di fornire statistiche realmente convincenti e scientificamente esatti. Sappiamo però di avere avuto risultati interessanti, e molte volte -soprattutto allorché il paziente non ha opposto molta resistenza- realmente incoraggianti.
Esistono già non pochi minori che dopo anni di accuse e rifiuti “totali” e “drastici” (così almeno descritti dai loro genitori), sono lentamente tornati a rapporti accettabili, più o meno accettabili e pieni, dal genitore alienato.
Non è semplicissimo ottenere sempre questi risultati, ma noi riteniamo deplorevole non provarci almeno, e spingere invece chi ci consulta ad una guerra dissennata.
Prima o poi Ulisse -per utilizzare la bellissima metafora individuata dalla dottoressa Rinaldi dal testo di Zoja- deve tornare a Itaca, e non può essere proprio lui che si elimina da solo dalla vita del figlio.
La tragedia di essere la pallottola utilizzata dal nemico contro sé stessi deve trovare una soluzione, e anche se questa soluzione all'inizio appare folle e impraticabile, bisogna cercare di praticarla.
Se proprio dovessimo tirar fuori una percentuale dalla nostra esperienza clinica, diciamo che nel sessanta-settanta per cento quasi dei casi abbiamo avuto risultati soddisfacenti, a volte -sia pure più raramente- anche ottimi. Ed è per questo che ogni volta ci “riproviamo”.
La prima volta che abbiamo pensato di standardizzare in un corpus teorico e operativo questo approccio “paradossale” (e per noi “zen”) al problema del genitore “amputato” (per riprendere l'indovinatissima espressione di G. Benedetti), è stato allorché abbiamo ricevuto una email da un genitore che avevamo seguito, e che era arrivato a noi da una città del Nord dopo una ricerca sul Web. Lo avevamo incontrato pochissime volte, ma evidentemente la cosa aveva dato i suoi frutti. I nostri consigli -paradossali, e da un certo punto di vista apparentemente del tutto inattendibili- a base di “sms” e “email” e “astensioni dagli incontri”, avevano dato come già altre volte, dei frutti. In quel caso, degli ottimi frutti, a quello che ci disse questo padre, e ciò ci spinse a ritenere che forse potevamo davvero formalizzare un modello più preciso di intervento, e utilizzarlo con una certa accuratezza e speranza di riuscita.
Quel padre ci aveva comunicato quello che era successo con una email, e ci ringraziava per quello che era successo a seguito dei nostri due o tre incontri, offrendosi come volontario per aiutarci a risolvere casi analoghi: da quanto ci aveva detto al telefono, era convinto che solo chi ci era passato prima potesse riuscire a essere efficace nel trasmettere una tecnica del genere. Per noi è stata la prova di come fosse difficile proporre soluzioni del genere, come fosse difficile accettarle, ma come valesse appunto la pena di tentare con quelle soluzioni apparentemente insensate.
Riteniamo dunque che la cosa migliore sia chiudere questo scritto con quelle sue parole:
Dottore buongiorno.
Faccio seguito alla telefonata di pocanzi per ribadirLe che la mia situazione alla fine ha preso una piega positiva. I miei tre figli infatti, pur se prevedibilmente lentamente, hanno ricominciato a frequentarmi e a dimostrarmi sempre più affetto.
Dal giorno del verbale di udienza del tribunale che allego, ovvero da inizio gennaio ***, è stato intrapreso un percorso di mediazione famigliare (tutt'ora in corso) presso una psicoterapeuta di ****.
I miei figli hanno dapprima iniziato a rispondere regolarmente alle mie telefonate, poi a vedermi inizialmente un'ora la settimana, quindi un'ora a giorni alternati, fino ad arrivare a vederci anche tutti i giorni (anche se non necessariamente), andare al cinema di tanto in tanto, cenare almeno una volta la settimana assieme ed addirittura trascorrere intere giornate a sciare o visitando città.
I ragazzi dimostrano di volermi bene e di apprezzare i momenti che trascorriamo assieme, anche se noto che in qualche frangente non sono ancora completamente rilassati (penso sia normale) come erano una volta. Ma penso a questo punto sia veramente questione di tempo e di aver pazienza.
Ieri sera per la prima volta sono uscito a cena solo con uno dei tre, il più grande. Senza il "sostegno" dei frateli temevo ci fosse qualche imbarazzo da parte sua, ma mi sono positivamente ricreduto e devo ammettere che siamo stati bene, abbiamo chiacchierato serenamente di tante cose (compresa l'imminente festa del suo imminente ed importante **° compleanno) e non c'è mai stato un momento di imbarazzo da parte sua. O almeno non l'ho notato....
Allego anche il mio ricorso al tribunale in cui, oltre alla richiesta di consulenza di tipo psico-diagnostica per i miei figli che è stato accettato, chiedo anche l'affidamento degli stessi. Cosa per il momento non presa in esame, fino alla data della prossima udienza fissata il 31 *** ***. Ma non era questa la faccenda che mi premeva di più, bensì la serenità dei miei figli .
La ringrazio tantissimo per il preziosissimo aiuto offertomi, per le eccellenti capacitò professionali ed umane che mi ha dimostrato dal momento in cui, letteralmente disperato e come ultima spiaggia, mi ero rivolto a Lei.
Rimango a Sua completa disposizione nel caso Le servissero ulteriori delucidazioni in qualunque modo utili per la risoluzione di casi drammatici analoghi al mio.




BIBLIOGRAFIA




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INDICE DELL''ARTICOLO PRESENTE SU PSYCHOMEDIA


Premessa


1. IL MOBBING IN LETTERATURA SCIENTIFICA
1.1. Il mobbing in etologia
1.2. Il mobbing nei gruppi umani
1.2.1. Il Mobbing nel mondo del lavoro
1.2.2. Il “mobbing”: altri vocaboli per lo stesso significato; un vocabolo per altri fenomeni
1.2.3. Il “Charivari” come forma di “Mobbing sociale”
1.2.4. “Accadde un'estate”: racconto di un mobbing familiare dal basso
1.3. La distinzione tra mobbing lavorativo, mobbing genitoriale e altri mobbing
1.3.1. Il mobbing come modalità relazionale comune a gruppi animali e umani
1.3.2. I punti in comune della modalità mobbizzante
1.3.3. Il “mobbing” nell'uomo come estensione di un programma di autotutela della prole e del fitness


2. LA TRANSAZIONE MOBBIZZANTE NELLA COPPIA GENITORIALE TRA GENITORIALITA' E GIUSTIZIA
2.0 Premessa: l'utilizzo di un nuovo lessico in questo scritto
2.1. La “comparsa” dell'intruso e l'emergere della transazione mobbizzante nella coppia genitoriale
2.2. Il rapporto tra il contenzioso giudiziario e la transazione mobbizzante
2.3. Diritto vs. autopoieticita' della coppia
2.4. Il diritto come autostrada preferenziale per la gestione del conflitto di coppia
2.5. Dal caos nel sistema-coppia ai processi di subottimizzazione
2.6. Il mobbing genitoriale come problema di “diritti sbagliati”
2.7. La subottimizzzazione come risultato dell'esazione sbagliata di diritti sbagliati
2.8. Diritti sbagliati e dis-qualita' emergente dal “sistemaseparazioni”: il “family chopping”.
2.9. La serialità decisionale della giustizia in tema di affidi e l'eliminazione della figura del padre: ipotesi per una lettura socio-antropologica
2.10. Il Mobbing genitoriale e la Giustizia Italiana
avv. Massimiliano Fiorin – Foro di Bologna


3. LE CARATTERISTICHE DEL MOBBING GENITORIALE
3.1.Definizione di mobbing genitoriale
3.2.1. Le tattiche di ostacolo e distruzione del legame genitore-figlio
3.2.1.1. Gli ostacoli alle frequentazioni e alle comunicazioni
3.2.1.2. Le tattiche di distruzione dell'espressione sociale e legale della figura genitoriale
3.2.1.2.1. Le tattiche extra-giudiziarie
3.2.1.2.2. Le tattiche giudiziarie
3.2.1.2.2.1. - La mobbizzazione attraverso l'utilizzo di profili civilistici.
3.2.1.2.2.2. La mobbizzazione attraverso l'utilizzo di profili penali
3.2.1.2.2.3. Lo stalking giudiziario
3.3.1. Tattiche svilimento e distruzione della figura genitoriale


4. LE CONSEGUENZE DEL MOBBING GENITORIALE E DELLA TRANSAZIONE MOBBIZZANTE
4.1.0 Premessa: dalla coppia unita all'“Insieme Bi-Genitoriale da Separazione” a transazione mobbizzante.
4.1.1. La cosiddetta PAS – Sindrome di Alienazione Genitoriale
4.1.1.2. Le polemiche relative alla “Alienazione Genitoriale”
4.1.1.3. Le polemiche sulla PAS e l'Alienazione Parentale come momenti di una mistificazione
5. IPOTESI DI GESTIONE CLINICA DEI CONTESTI GENITORIALI MOBIZZANTI E ALIENANTI
5.1. La gestione dei contesti a transazione mobbizzante: l'intervento del Tribunale o di suoi incaricati
5.1.1. Cenni sulla responsabilità professionale degli operatori dei Servizi Sociali incaricati dal Giudice
Avv. Massimiliano Fiorin – Foro di Bologna
5.1.2. Tentativi di intervento clinico in casi di della alienazione parentale con interruzione del legame genitori-figli: una premessa
5.1.3. La cicatrice paterna: frattura e possibilità di ricostruzione del legame padre figlio nei casi di mobbing genitoriale
dr. Gaetano Giordano
dr.ssa Benedetta Rinaldi
dr. Marco Muffolini
5.1.4. Il ritorno di Ulisse: strategie di intervento nel mobbing genitoriale
5.1.5. I risultati e le statistiche


BIBLIOGRAFIA

1Il Centro Studi Separazioni e Affido Minori è formato da colleghi psicologi e medici uniti tra loro da un solo vincolo culturale e di colleganza professionale, privi di qualsiasi aspetto associativo formalizzato.

2Il paragone -geniale- con il ritorno di Ulisse ad Itaca, nella casa infestata dai Proci e con il figlio (e per quanto riguarda il mito, anche la moglie) è stato individuato per prima dalla dottoressa Benedetta Rinaldi, che ha firmato l'articolo precedente. Ascoltato il resoconto di diversi casi di padri (e, in numero minore, di madri) deprivati dei figli, riconobbe subito nella struttura dell'intervento terapeutico la presenza del mito di Ulisse, dando un contributo sostanziale e chiarificatore all'inquadramento teorico delle tecniche già in uso.