10 aprile 2013

L'INCUBO DELLE MAMME DI POMERIGGIO 5 E' ANCHE IL NOSTRO




Venerdì 5 aprile, la trasmissione ‘Pomeriggio 5’ si è occupata nuovamente del caso denominato “Il bimbo conteso di Cittadella”, insalatata con un servizio sulle diete ed uno su qualche personaggio famoso ora dedito al lavoro di parrucchiere, e condito dal sorriso caldo-mammesco e high profile di Maria Carmela D'Urso (Napoli, 7 maggio 1957), in arte Barbara.

Circa il suddetto intervento, sottolineiamo allora, e in primis, l'utilizzo della nuova “location” ("Cittadella" in luogo di "Padova") per identificare la storia.

Un cambio di location che ha in realtà una sua fondamentale importanza relativamente alle finalità comunicazionali con cui lo show della signora Maria Carmela intende “rap/presentare”, il caso.

Quando il caso iniziò, infatti, il piccolo veniva chiamato “il bambino di Padova” (città dove abita il papà).

Adesso il bambino è invece “di Cittadella”, il luogo cioè dove il piccolo è -momentaneamente almeno- tornato a vivere con la madre. 

In questo modo, il piccolo è associato da subito a uno specifico contesto non solo geografico, ma anche emotivo, ovvero quello materno, grazie appunto alla locuzione “di Cittadella”.

Chiave fondamentale della vicenda è infatti osservare come la Maria Carmela (D'Urso), a fronte di un dichiarato suo volersi schierarsi “solo con il bambino”, abbia pienamente colluso  sia in questa trasmissione, sia nelle precedenti dedicate allo stesso argomento, con la madre del piccolo. 

Vi sono stati due modi chiave per operare questa collusione, il che ha consentito alla madre del bambino di presentare a tutti gli spettatori il proprio punto di vista, parziale quanto soggettivo e indimostrato, come l'incubo oggettivo e di tutti gli spettatori che si ritenessero di buon senso.

Il primo modo è stato il consentire alla signora Ombretta (come si chiama la mamma del piccolo) di esprimere durissime ma indimostrate accuse contro il padre del piccolo e verso la struttura che ospitava il piccolo, senza mai:
1) specificare con chiarezza che si trattava delle accuse di una parte di un procedimento giudiziario;
2) far notare che ogni accusa della signora Ombretta mancava di qualsiasi prova da mostrare; 
3) esplicitare che il credito e la fiducia dati alla signora Ombretta dovevano essere gli stessi che, in assenza di qualsiasi prova e comunque di qualsivoglia definitivo pronunciamento giudiziario, andavano dati anche al suo ex marito (dato che la signora Maria Carmela, dal proprio salotto, si è ben guardata dallo specificare). 

Il secondo modo è stato quello di non citare informazioni chiave: ad esempio, che la madre può giustamente farsi forte delle sentenze a favore (come l'ultima della Cassazione), ma quando si lamenta di decisioni da prendere (ad es. in tema di scuola) dovrebbe ricordare (o dovrebbe ricordarglielo la signora Maria Carmela) che:
- la sua potestà genitoriale è ancora sospesa, mentre quella del padre del piccolo no;
- che al momento il bambino non risulta nemmeno affidato a lei ma ai Servizi Sociali (la signora Ombretta o il suo avvocato ci smentiscano, sul punto, e saremmo ben felici di rettificare).
  
Tutto questo potrebbe far pensare -a qualche maligno in agguato- anche ad una precisa volontà di suscitare un calore mediatico a favore della madre del piccolo, per esercitare una pressione sulla magistratura che dovrà ora (ri)affrontare il caso.

Il primo punto da sottolineare, dunque, circa la conduzione da parte della signora Maria Carmela è allora questo: la signora Maria Carmela presenta, nel suo salotto buono, un fatto di cronaca, e -di fatto, e salvo pochi accenni- tratta chi lo espone come se fosse un  testimone credibile e attendibile, e non una parte di un procedimento giudiziario che ha tutto l'interesse ad essere parziale, a presentare fatti e persone a seconda dei propri interessi, a dare al pubblico la versione che più le fa comodo.

Gli applausi del pubblico alla mamma, a scena aperta, mentre racconta le ipotetiche (e non documentate) sofferenze del piccolo e/o sue, sono appunto la dimostrazione che il messaggio che la signora Maria Carmela voleva far passare, passa pienamente: la farmacista di Cittadella è nel ruolo di madre "giusta", che ha subito mille ingiustizie e pugna ferocemente per difendere il figlio da un padre snaturato.

Un padre descritto -in assenza di alcun intervento della signora Maria Carmela- come “uno che”:
- “…dice sempre falsità”;
- si mostra davanti alle telecamere solo in “apparenza”;
- va a prendere il figlio a scuola “di nascosto”,
- è il difensore di una “casa famiglia dei misteri” nella quale sono state fatte “minacce” e “un’aggressione” al piccolo Leonardo.
Queste affermazioni, poste così una dietro l’altra, sembrerebbero inchiodare il padre come unico responsabile dell’”incubo” proposto dalla madre.

Senza chiaramente entrare nel merito di cosa possa essere più o meno vero, è interessante notare che nell’affermazione della madre: “dice sempre falsità”, la parola “sempre” rende l'affermazione stessa apodittica e autoreferenziale, e di fatto la invalida.

Allo stesso modo, la donna nega le affermazioni altrui contrapponendovi, sempre o quasi, la locuzione “in realtà” e quindi ponendosi come unica fonte attendibile.

Lo stesso principio vale per quando la madre afferma che il padre del bambino si mostrerebbe, durante l’intervista, "buono" solo in “apparenza”, contrapponendolo di nuovo a sé stessa, come se a sua volta, anch’ella non potesse essere considerata alla stessa stregua.

Una parte, interessata ad accreditare il proprio punto di vista, ci viene dunque presentata come testimone oggettivo e sofferente, vittima insieme al proprio figlio di gravi ingiustizie, provocate dal padre di costui: quanto di più lontano da una reale informazione su un drammatico caso di conflittualità genitoriale che meriterebbe ben altro trattamento.

C'è un punto nel quale la signora Maria Carmela si rende conto del totale (e a quel punto pericoloso) sbilanciamento della trasmissione, ed è quando la madre del bambino comincia a fare riferimento alla casa famiglia - Casa Priscilla - come la “casa famiglia dei misteri” è troppo tardi.

Se ne accorge anche la D’Urso che tenta ormai tardivamente di contenerla, cercando di chiudere in qualche modo lo spazio concessole: la conduttrice si schiera esplicitamente al fianco della Sig.ra Ombretta richiedendo di corsa al padre del piccolo di rilasciare "il nullaosta" affinchè il bambino possa ricominciare a frequentare la scuola di Cittadella, ma senza minimamente preoccuparsi di far capire perché il padre non voglia dare questo nullaosta, il che rende forte il messaggio -sottostante e "virale"- che  viaggia: non ha alcuna importanza esprimere il punto di vista del padre perché tutto quello che c'è da dire lo dice la madre del bambino.

La signora Maria Carmela sembrerebbe, in un raro momento, farlo solo per senso comune, un messaggio - positivo - con il quale smorzare la tensione ormai montante, ma non è sufficiente: la Sig.ra Ombretta, incontenibile, trascina per altri due minuti la propria permanenza in video arrivando ad accusare un operatore della suddetta casa famiglia di aggressione nei confronti del figlio (questa persona avrebbe graffiato il collo del bambino, lasciandogli dei segni); secondo la versione della donna, a quanto almeno ha fatto capire, la struttura avrebbe poi coperto l’accaduto con la complicità del padre.

A questo punto la D’Urso non può non interrompere: “Ombretta questa cosa è molto complicata, quest’ultima cosa che hai detto è ancora più grave, io ti prego, insomma cerchiamo queste cose di farle alle autorità competenti e non in televisione, ti prego!”.
Troppo tardi.

Durante la trasmissione in pochi frangenti ci si occupa di cronaca: l’accento emotivo - già trattato in un altro articolo - viene veicolato allo spettatore tramite il termine “incubo”, più volte ripetuto, come se in qualche modo potesse essere sufficiente a motivare l’intera trattazione, ma ad una successiva analisi, ci si può accorgere di come questo stesso termine, oltre a rappresentare un peso simbolico (dal latino in-cubare, giacere sopra), ha a che fare con uno stimolo percettivo che per definizione è soggettivo e quindi risulta inevitabilmente non condivisibile come realtà “oggettiva”.

Sin dall’inizio l’accordo collusivo, per sua natura fondato sulle emozioni, permette l’utilizzo di locuzioni che non possono che essere opinioni personali, ma grazie alla struttura stessa del format di infotainment, passano allo spettatore in una forma fusa tra informazione e intrattenimento, di difficile interpretazione e distinzione, veicolando così - inconsciamente - un’opinione personale che può assumere il peso di una notizia e viceversa.
In una trasmissione del genere, in realtà, il ruolo del conduttore è estremamente delicato e complesso: dovrebbe saper trattare la sensibilità della comunicazione. 

La signora Maria Carmela appare invece piuttosto coinvolta emotivamente nel caso, e forse è un fatto voluto, per facilitare a sua volta la connessione emotiva dello spettatore, peraltro già alimentata dall’essere donna ed esplicitamente mamma, così come il target d’ascolto principale al quale il programma si propone.
In questo clima il dispiegarsi della collusione, prima tra conduttrice e madre del bambino, e quindi di questo “duo comunicazionale” con lo spettatore, non può che spingere chi guarda a vedere gli altri attori della vicenda in modo critico, rischiando in questo caso di concedere alla madre del piccolo la possibilità di disfarsi del suo ruolo di parte in causa e quindi co-responsabile, per divenire anche giudice.

Ciò avviene, ad esempio, quando la D’Urso riporta una sua conversazione con l’avvocato della madre del piccolo.
C'è già un primo punto da notare, in questo caso: il fatto che Maria Carmela D'Urso riporti le parole dell'avvocato, sembra conferire a questi dice particolare veridicità.
“Se l'avvocato lo ha detto a me, sicuramente non imbroglia”, è il messaggio virale che passa. “Imbrogliare me equivale poi a farsi sbugiardare in pubblico”.

Ed ecco però cosa l'avvocato le avrebbe detto:
“Se io percepissi che la madre non vuole far incontrare il bambino al padre, le garantisco io, signora D'Urso, come avvocato, che il padre potrà vedere il bambino quando vorrà”.
La frase implica -e che qualcuno ne sia consapevole o no non è dato da sapere ma comunque non importa- un grave inganno comunicazionale.

Il vero messaggio che passa, infatti, è che è giusto che sia l'avvocato della madre (e nemmeno dunque la madre) a decidere quando il padre potrà vedere il figlio.

Lo spettatore, partecipando anch’esso emozionalmente al “racconto” della signora Maria Carmela D'Urso, non può accorgersi della cosa, e cioè che il padre potrà vedere il bambino quando e se l’avvocato percepirà che la madre non vuole gli incontri.

Tutto è dunque affidato alla percezione che ne ha l'avvocato della parte: ma questo, ovviamente, non viene detto. 

E' assurdo infatti che un avvocato si faccia garante dei diritti di un padre che è il suo  avversario in processo, l'uomo a cui lui vuol togliere il figlio, ma è esattamente questo che in questo momento e in questa trasmissione viene detto.

In questo senso, la trasmissione in questione toglie ogni diritto al padre, perché nessuno si azzarda a ricordare al pubblico che le “percezioni” di un avvocato della parte non hanno alcun senso nel legittimare o delegittimare i diritti dell'altra parte.

Utilizzando la congiunzione “se” non si dà quindi per scontato che il padre possa e debba vedere il figlio quando statuito dal giudice, ma subordinandolo alle “percezioni” del suo avvesario.

E' passato così sotto silenzio un dato macroscopico taciuto dalla signora Ombretta  e ovviamente da Maria Carmela, che può ignorare (e far ignorare al pubblico) tutto quel che crede sia lecito ignorare.

Il dato macroscopico è che la settimana prima, tramite il proprio legale, la signora aveva inviato ai Servizi Sociali una proposta di calendario di incontri padre-figlio molto restrittivo, contraddicendo nella sostanza quanto affermava in trasmissione, e cioè che il bambino potesse incontrare liberamente il padre.

E' qui che si dimostra dunque come Maria Carmela si configuri in realtà come una figura "onnipotente", scivolando poi tra un ruolo e l’altro: fa il giudice/avvocato, quando legittima l'avvocato della parte a fare l'avvocato/giudice, fa lo scienziato/giudice, quando erroneamente decreta che la "PAS" non esisterebbe (senza fare alcun riferimento alle altre sentenze di Cassazione a riguardo), fa la mediatrice, quando invita a discutere a "Pomeriggo 5" qualunque attore della vicenda, fa la cronista/opinionista, quando presenta una parte di un processo in corso come se fosse la testimone degli avvenimenti che denuncia.

Per chiarezza: non vogliamo certo demonizzare la figura professionale della D’Urso, ma porre l’attenzione su come un ambiente complesso, come quello sin qui descritto, non può accogliere e organizzare il contenuto emotivo e i vissuti che vi vengono rovesciati all’interno.

L’interpretazione multiforme della conduttrice non è mai stata tesa ad impedire alla signora Ombretta di fare accuse forti a più soggetti, senza presentare alcuna prova - promessa sempre in un secondo momento – denunciando, alla fine, uno stato di connivenza tra la casa famiglia e il padre di Leonardo.
Tutto quello che la madre del piccolo diceva, era accolto come la denuncia di una sopraffazione subita, non come le parole di una parte che poteva anche dire il falso, consapevolmente o meno, e/o riferire frasi o che il figlio non aveva detto o che si era inventato per i motivi tra i più vari (incluso, e soprattutto, quello di ingraziarsi una madre che potrebbe apparire anche ferrea e inamovibile nel pretendere dal figlio alleanza e partecipazione alla propria causa).

Nell’episodio, sopra riferito, dell’accusa di aggressione da parte di un operatore di Casa Priscilla nei confronti del bambino, viene permesso alla madre del bambino di trasformare coloro che negano l’accaduto in soggetti che, coalizzati, tramerebbero una congiura ai danni propri e del bambino: secondo questa logica, dunque, l’atto di contrapporsi al suo pensiero equivarrebbe ad un indizio certo di ‘colpevolezza’.

Questo avviene allorché la signora riferisce -sdegnata- di alcune lesioni che suo figlio avrebbe sul collo e/o sulle guance, e che gli sarebbero state procurate da un operatore della casa.

La signora riporta sdegnata che “tutti invece negano”.
Il messaggio virale che passa è molto potente, ed è di fatto composto da molte affermazioni, tutte ben caratterizzanti la comunicazione in atto. 

E che sono queste:
- la farmacista di Cittadella -per come viene presentata dalla signora D'Urso- è persona che dice la verità, tutta la verità, niente altro che la verità, e quella verità è quella che le ha raccontato il figlio.
- il figlio, a sua volta, dice anch'egli la verità, tutta la verità, niente altro che la verità, perché è un bambino e i bambini non imbrogliano (e dunque sono sempre attendibili e mai manipolati a parlare a favore di uno dei genitori e contro l'altro: la PAS, infatti, non esiste);
- il fatto che tutti neghino l'accaduto non è affatto una prova che il bambino menta o ricordi male e che sua madre voglia dunque accusare ingiustamente un operatore della casa famiglia (suo “nemico” nella vicenda), ma è la prova, al contrario, che la madre ha sempre ragione, che il bambino ha sempre ragione, e che i due sono anzi vittime di una congiura.

Un ulteriore aspetto messo in luce con questa logica comunicazionale di indicare la verità tutta nel discorso di una parte, avviane allorché si parla del motivo per cui il padre di Leonardo impedirebbe al figlio di ricominciare a frequentare la scuola a Cittadella negandogli il nullaosta.

Circa tale particolare, vediamo solo la madre -e la signora D’Urso accorata a seguire- che chiedono questa firma, tanto da portarci a pensare che non può esserci alcuna ragione per non dare il proprio consenso, ma non c’è né un contraddittorio, né il tempo.

Nessuno cita la versione del padre, né viene prospettato la possibilità che le cose stiano diversamente.

Nessuno cita ad esempio un particolare determinante: la madre del piccolo nel 2009 è stata dichiarata decaduta dalla potestà genitoriale, anche se l'Autorità Giudiziaria ha mantenuto il collocamento presso di lei.

Il padre, dunque, nella sua qualità di genitore esercente in via esclusiva la potestà genitoriale, come tale chiamato a decidere la scuola di suo figlio provvedendo alle relative formalità, avrebbe potuto cambiare scuola, ma ha preferito lasciare le cose come stavano, per la tranquillità del bambino.

Nell'agosto 2012 la Corte d'Appello di Venezia ha ordinato l'allontanamento del bambino dalla famiglia materna, eseguito solo in ottobre, proprio presso la scuola di Cittadella.

Il bambino è stato inserito in una Comunità di Padova, dove risiede anche il padre, il quale a quel punto ha deciso di iscrivere il bambino nella scuola adiacente alla Struttura, frequentata anche da altri bambini della Comunità.

Il padre del piccolo -e questo è ovvio ma nessuno lo dice- non ha iscritto il bambino nella scuola vicina alla propria residenza (che è dal'altra parte della città) e che gli avrebbe fatto risparmiare, nell'ora di punta, almeno 45 minuti di coda (quando il piccolo pernottava presso di lui).

Nessuno però chiede alla madre del piccolo come mai ella -all'epoca in cui il bambino fu trasferito nella struttura di Padova- chiedesse attraverso i massmedia che il bambino si recasse nella scuola di Cittadella (dunque con quotidiano tragitto Padova- Cittadella, pari a circa 27 Km.), senza segnalare nessuna controindicazione in merito alla lunghezza del tragitto, come invece fa ora che invoca il “nulla osta” del padre. 

Fra l'altro, fornendo cifre molto difformi dal vero: per compiere il suddetto tragitto, non servono infatti due ore, ma, male che vada, quaranta minuti.

Altro dato non citato, è che la madre del bambino si è mossa con l'attitudine di chi può decidere sul figlio, senza cioè tener conto che non è stata ancora reintegrata della potestà genitoriale: il giorno dopo l'uscita della sentenza di Cassazione, infatti, la madre del piccolo si è recata dalla Dirigente della Scuola di Cittadella chiedendo il trasferimento del bambino da Padova a Cittadella. 

La funzionaria in questione ha immediatamente inoltrato la richiesta di nulla osta alle autorità scolastiche di Padova, e le autorità scolastiche di Padova in buona fede l'hanno immediatamente concesso (la madre era andata in TV a dire che il bambino tornava a scuola a Cittadella e che già tutti stavano festeggiando).

Solo a quel punto, il padre ha preso contatto con le Autorità scolastiche ed ha fatto annullare il nulla osta, e questo per varie ragioni: continuità didattica volgendo ormai al termine l'anno scolastico, mantenimento del rapporto quotidiano con il padre, lontananza dal vecchio ambiente scolastico alienante, motivi di sicurezza per l'aggressività della famiglia materna, ecc.).

La madre, informata in tempo reale dell'annullamento dalla Preside, ha allora comunicato alla stampa che il bambino era stanco e avrebbe ripreso la scuola dopo le vacanze di Pasqua.

Nel frattempo, presentava all'insaputa del padre una istanza irrituale all'Autorità Giudiziaria chiedendo il rilascio del nulla osta.

Venerdì mattina i Servizi Sociali, tornati affidatari, chiamati a regolamentare i rapporti del bambino con il padre non collocatario, confermavano la scuola di Padova e prevedevano che ogni giorno la madre portasse il bambino a scuola e il padre lo riprendesse all'uscita e lo riportasse a Cittadella in serata.

Il pomeriggio stesso, la madre, dopo aver disinformato la stampa locale, ha partecipato alla trasmissione nazionale della D'Urso affermando che:

- il padre "per ripicca" non concedeva il nulla osta e per colpa sua il bambino non poteva andare a scuola, senza però specificare come mai il piccolo, regolarmente iscritto a scuola a Padova, non venisse mai portato alle lezioni)

- il bambino voleva andare a scuola a Cittadella insieme ai suoi amici e ne veniva impedito dal padre guastafeste (quando, vero è che fino al giorno prima andava volentieri a Padova, dove aveva fatto amicizie anche strette con gli altri bambini)


- la decisione di far restare il bambino nella scuola di Padova sarebbe dello snaturato padre, e non invece -come è in realtà- una decisione dei Servizi Sociali;

Infine, un ultimo dato: la signora ha fatto sapere che il proprio avvocato tutelerà il diritto del piccolo a incontrare il padre liberamente, ma qualche giorno prima di fare qualche affermazione la signora ha fatto avere al padre del piccolo una proposta per gli incontri tra lui ed il figlio.
Proposta nella quale la parola “liberamente” era sostituita da frequentazioni molto restrittive.

Finita l'apparizione della madre del bambino, si passa a parlare di parrucchiere…
Una trasmissione per mamme e bambini, per l’appunto, nella quale l'informazione accurata non sembra proprio necessaria.

Dr. Marco Muffolini
Dr. Gaetano Giordano.