14 maggio 2007

IL VERO ORRORE DI RIGNANO FLAMINIO: LA RABBIA DELLA "MADRE" IN UN MONDO SENZA PADRE

Le cifre sembrano proprio dire questo.
Un'epidemia di denunce di falsi abusi, dietro cui, immancabile, c'è una mamma o un gruppo di mamma.
E in tutti i casi tutti i presunti colpevoli - scagionati dopo una detenzione assurda e ingiustificabile - hanno un dato in comune.
Il proprio ruolo rispetto alla madre del bambino pretesamente abusato: sono sempre persone che hanno assunto compiti che in epoca neonatale e fino ai tre anni erano della madre e che poi diventano invece quelli promotori di una spinta alla socializzazione e alla autonomia individuale e sociale del bambino.

In tutti i casi, vittima della falsa denuncia di abuso è un individuo che ha come caratteristica quella di limitare il potere della madre e, soprattutto, la autoreferenzialità di questa onnipotenza.

Quante sono le denunce per abuso sessuale, presentate o stimolate dalle madri contro i padri dei propri figli, che poi vengono puntualmente archiviate, dopo aver fatto danni enormi?

E chi c'è sempre dietro le tante denunce contro le insegnanti delle scuole - scuole, non a caso - "materne"?

Una mamma.

Oppure un gruppo di mamme.

Non c'è solo Rignano Flaminio, molto probabilmente, fra l'elenco di scuole "materne" vittime delle accuse, al momento prive di gravi indidizi, di pedofilia.
Maestre delle scuole materne, e comunque personale di istituzioni che accolgono bambini dai tre ai cinque anni, sono state vittime di calunnie in molti casi.
Anzi: occorrerebbe cominciare a contare i danni fatti da questi "gruppi di mamme", che propalano vicende sempre al limite della credibilità, e che ostentano sicurezze onnipotenziali, quando, interrogate sui massmedia, hanno già stabilito di poter essere le sole che sanno davvero cosa è successo al proprio figlio e le uniche che possono decidere come sono andati i fatti.

A nostro avviso, tutto questo passa per il determinato momento psicostorico, per così dire, che stiamo vivendo.

Un momento nel quale l'immagine e la figura del "Padre", e di tutto ciò che esso comporta, sta drammaticamente venendo meno nella psiche collettiva, nella nostra cultura, nel nostro modo di pensare.

Per questo (e la categoria lo ha intuito da tempo: basta chiedere a qualche maestra) il ruolo delle maestre delle scuole materne è un ruolo che sta diventando sempre più a rischio.

Perchè, esattamente come quei padri che si separano e che tendono a pretendere dalle madri una condivisione nella gestione del figlio, anche le maestre e il personale delle scuole materne (e si sottolinea: "materne"), costituiscono il primissimo fronte, per così dire, che pone ostacoli all'autoreferenziazione del potere materno sui figli, e impone al bambino regole e comportamenti che lo estraneano alla completa gestione materna, per influire direttamente sul suo comportamento e sulla sua consapevolezza di sè.

Per valutare la portata di quanto stiamo affermando, basta consultare il sito
www.falsiabusi.it, e rendersi conto di come tutte le vittime di denunce di falsi abusi sessuali sono tutti - o in stragrande maggioranza - ai danni di educatori che avevano rapporti con minori in età di scuola "materna", ovvero padri separati.

Ci si chiederà perchè non sono coinvolti invece operatori degli asili nido, i cui frequentatori sfiorano comunque l'età dei tre anni.

A nostro avviso ciò avviene perché gli asili nido è ancora uno spazio nel quale comunque il potere della madre non viene limitato dalla struttura che ospita il figlio: è uno spazio percepito di fatto protesi dello spazio materno, di continuità operativa della madre, e le operatrici che vi partecipano sono, molto più che le maestre delle materne, pure fornitrici di contenuti e comportamenti meramente assistenziali: lavano il bambino, gli danno da mangiare, lo cambiano ma condividono regole e soprattutto autorità con la madre.

Difficilmente operano in termini valutativi e - soprattutto - sono a contatto con bambini che molto più di quelli che si recano alla materna hanno un rapporto ancora fusionale con la madre.

Nel nido, in altri termini, la mamma è ancora la mamma, e il distacco dalla fusionalità coscienziale del bambino da lei non è in pericolo.

I bambini della scuola "materna", invece, cominciano ad acquisire intanto una consapevolezza sempre più nitida di una propria differenza dalla "mamma", entrano nel periodo in cui si percepiscono sempre più come individui a parte dalla persona che li ha generati, e cominciano a essere avviati comunque (e proprio per questo) a quel processo di socializzazione mediato da regole e informato da un "Logos" di partecipazione sociale che farà di loro individui adulti e autonomi.

Da questo punto di vista non stupisce che la denuncia di un abuso mai avuto avviene in due occasioni appunto: quando "le mamme" si confrontano con le "maestre", che assumono appunto in qualche modo un ruolo di limitazione del loro potere sul minore - iniziando per così dire a presentarlo alla società - o quando entrano in contrasto con un "padre" che intende condividere, ma da posizione di non fusionalità coniugale, le responsabilità genitoriali.
I entrambi i casi cioè, la vittima della falsa denuncia di abuso è chi si pone in posizione limitante il ruolo onnipotenziale della madre e, soprattutto, ha come specifico ruolo quello di avviare il bambino alla propria autonomia coscienziale di individuo immerso in un sistema di regole sociali.

D’altra parte, non possiamo certo dimenticare che se esiste la c.d. Sindrome di Munchausen per procura, l’abuso sessuale può esserne semplicemente una variante. Noi sappiamo che "Nel DSM-IV la sindrome di Munchausen per procura viene definita come "Disturbo Fittizio con Segni e Sintomi Fisici Predominanti (300.19)". Si tratta di un serio disturbo di personalità con controllo volontario da parte del soggetto che simula la malattia, talora con una lucida convinzione delirante. Quando queste persone hanno dei figli, spostano su questi la loro convinzione di malattia, arrivando a sottoporli a continui accertamenti medici e cure inutili nonchè inopportune, giustificate esclusivamente dalle fantasie del genitore (quasi sempre della madre) e dalle sue conoscenze mediche. In queste situazioni il bambino tende a colludere con il genitore, simulando uno stato di malattia pur di avere garantite cure e attenzioni. In sostanza la malattia diventa per il bambino una modalità per superare la paura di essere abbandonato o rifiutato, perchè il genitore continuerà ad occuparsi di lui finchè presenterà i sintomi fisici, mentre la guarigione coinciderebbe con un abbandono. Nella sindrome di Munchausen il bambino arriva a perdere la capacità di percepire correttamente le sensazioni che gli provengono dal corpo, fino a non essere più in grado di distinguere se i sui sintomi sono reali, immaginati da lui o indotti dagli altri, con lo strutturarsi, come conseguenza, di un Sè fragile e poco differenziato. [N.d.r.: grassetto e sottolineatura nostri]. Le conseguenze più gravi di questo tipo di abuso emergono nel momento in cui il bambino cresce e diventa adolescente, entrando in una fase della vita che per definizione porta con sè una serie di problematiche legate al corpo. Il rischio che corre il ragazzo Munchausizzato è quello di continuare a percepire il proprio corpo come malato ed evolvere verso strutture psicotiche in cui sia centrale il delirio dismorfofobico e quello ipocondriaco, oppure sviluppare l'anoressia mentale nel tentativo di distanziarsi dai messaggi invalidanti ricevuti e negando e mortificando il proprio corpo considerato fino ad allora come oggetto malato del genitore." (da: SOSCHILD.ORG, dr.ssa Irene Parascosso).

Nulla esclude che tutte queste (e purtroppo ormai non rare) false denunce di pedofilia piene di racconti che solo le madri hanno sentito e hanno saputo comprendere, originino da meccanismi simili alla Sindrome di Munchausen, meccanismi assolutamete più facili da innescarsi quando si ipotizza un fenomeno ad altissimo grado di pericolosità verso il minore qual è la pedofilia.

Il problema è che - e anche questo ci appare emblematico del momento in cui viviamo - invece di prendere i racconti e le interpretazioni delle madri come spunti per approfondimenti in tutte le direzioni (ivi inclusa l'idea che l'abuso esista ma consista proprio della denuncia per pedofilia, ovvero che il disagio del bambino e le sue fantasie esprimano un problema intrafamiliare da cui è escluso il tema pedofilo), la Giustizia (esattamente come avviene nel diritto divorzile e nelle cause di separazione) privilegia in maniera acefala e acritica (basti vedere - nel caso di Rignano Flaminio - la discrepanza fra resoconti materni e risultanze investigative!) la visione "materna" dei fatti.

Quello che appare in gioco è dunque un attuale strapotere collettivo del materno, nella sua versione di fusionalità con l’infanzia, cioè di madre divorante il bambino quanto identificata con la sua verità: le madri che denunciano non denunciano mai altre madri come tali, ma sempre persone che hanno come ruolo quello del costruire con il bambino l’adesione a nuove regole di autonomia, socializzazione, limitazione del desiderio e della propria onnipotenza, in nome di una crescita nella autonomia e nella socializzazione.

Da questo punto di vista la “maestra” della scuola materna è un ruolo terribilmente a rischio, come quello del “padre” separato dalla madre: la maestra della scuola “materna” (così come la novizia o la suora che si occupa del bambino di tre anni, o l’istitutore dell’asilo) consegna alla madre il fantasma della fine della propria onnipotenza, e dunque un mondo nel quale non può più tenere la vita del figlio come se non fosse altro che la sua.

La maestra della scuola “materna” viene a togliere il figlio alla madre, e – così come farà per altri versi il padre – lo consegna ad un contesto di regole: il che, in questi tempi nei quali il “Padre”, inteso come dimensione archetipa della psiche collettiva ma anche dell’esistere sociale (il mondo sembra sempre più votato alla chiave dell’esaudimento immediato del desiderio), è sempre meno preente, implica un rischio gravissimo.

D’altra parte, basta ascoltare una intervista alla mamma denunciante di turno, per rendersi conto di quanto piena e totale sia l’identificazione con la diade madre-figlio/a: voci lamentose o infantilmente arrabbiate, pretese di verità, ragionamenti autoreferenziatisi sulla validità delle proprie deduzioni su cosa “è veramente successo al bambino”.

A rovescio, occorre tener conto di un aspetto del problema molto importante anche per altri punti di vista: le madri italiane hanno con i propri figli rapporti di rabbia e iniziazione alla violenza, come le donne di culture diverse, quali le sudamericane, ad esempio (che con i propri figli hanno ben diversi tipi di rapporto), intuiscono e descrivono subito. Basta andare in un supermercato o in un parco giochi, e vedere come mediamente la madre italiana rimprovera il figlio: con quale rabbia e quale violenza verbale (e a volte fisica) lo ammonisce, lo rimprovera, lo minaccia, lo ricatta, lo riempie di aggressività.

Non ci vuol molto, e basta recarsi in uno di questi “bacini di raccolta” di madri con i figli, per ad accorgersi come le madri italiane trasmettano a questi una impressionante carica di rabbia, minaccia, aggressività.

Il che implica che per ovvie esigenze psicologiche, questa rabbia (che poi verrà magari etichettata come “violenza al maschile”, nei maschi) dovrà essere rimossa e “proiettata” a scopo difensivo su un qualche “persecutore” di turno: la maestra cattiva, l’uomo nero e pedofilo, il padre abusante.

Il punto da approfondire è la relazione fra questa “rabbia” e l'autonomia del figlio.

La madre che rimprovera aspramente il figlio, che lo minaccia (ma non gli vieta) di riempirlo di sberle, schiaffoni, sganassoni, che lo fa piangere perché lui “vuole” troppo, è una madre che reagisce con rabbia (e non con regole ferme e non rabbiose o persecutorie, violente e umilianti) ai desideri e alle autonomie del figlio.

Laddove per gestire le quali ci vorrebbe non minaccia, rabbia, ritorsione, ma la salda fermezza di un Pater che consente al figlio di interiorizzare regole di autonomia e socializzazione.

Madri del genere dimostrano di percepire con “rabbia” l'autonomia e la ricerca dell'appagamento personale da parte del figlio, e sono incapaci di prospettare regole (paterne) di limitazione e definizione del filgio.

La stessa rabbia diviene accusa persecutoria allorché il processo di limitazione dei desideri del figlio in funzione di una acquisizione di identità e autonomia, e quelli di definizione di socializzazione del bambino, vengono iniziati da un'altra donna (la maestra), che si colloca in una posizione percepita dalla madre come antagonista e di potenziale rivalità.

In sintesi: l’orrore di Rignano Flaminio, come quello di tanti altre vicende del genere, non è nel pedofilo, ma nella dimensione materna che divora il minore per non consegnarlo al mondo.

Non è un caso che si invoca sempre la perversione dell’aspetto sessuale della relazione come metodica di abuso: la sessualità segna il limite oltre il quale la Madre non esiste, e dunque l’accusa per distruggere chi ha un ruolo limitante il materno, è una accusa di sessualità malata.

In altri termini, il sesso è un potentissimo fattore di differenziazione sessuale per l'Uroboro materno (il riferimento è a Jung) nel quale madre e figlio vivono una fusionalità senza consapevolezza di differenze e identità.

Diventa dunque un limite, e compare come evento persecutorio e lesivo "del" e "nel " mondo degli adulti che stanno strappando il figlio alla madre.

Una carezza al bambino non è una carezza: è un segno lascivo di quel mondo che vuole strappare troppo presto l'infante alla madre e consegnarlo a l mondo con le sue regole ma, ahime, con i suoi vizi.

No, non è affatto un caso che siamo in presenza di una epidemia di false denunce di abuso sessuale: il Padre è un evento negativo del nostro convivere sociale e se entra nella gestione del bambino (anche sotto forma di regole imposte dalle maestre di asilo), non è un Padre: è un adulto abusante

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