01 gennaio 2007

"IL DIRITTO AL PADRE" - di Paolo DUSI, magistrato, membro del CSM

Dal sito: LA VOCE DI FIORE, ripubblichiamo :


PAOLO DUSI,

IL DIRITTO AL PADRE *

L’affido condiviso dei figli, con i problemi che induce in una situazione spesso compromessa, afferma innanzitutto il diritto del figlio a entrambi i genitori e rispecchia l’evoluzione di una famiglia in cui non vige più la divisione del lavoro genitoriale di un tempo. L’“adozione mite” è il tentativo di una terza via fra rottura definitiva e separazione solo provvisoria dalla famiglia d’origine. Intervista a Paolo Dusi.

Paolo Dusi, già Presidente della Corte d’Appello di Trieste, è componente del Consiglio Superiore della Magistratura.

Possiamo partire da un inquadramento generale del diritto di famiglia?

In Italia la riforma del diritto familiare risale al ’75, ma aveva visto già prima alcuni interventi notevoli, per esempio la legislazione sul divorzio del ’70.

L’istituto dell’adozione (allora detta “speciale”) risale al 1967 e rappresenta una sorta di rivoluzione copernicana, in quanto per la prima volta il minore diventa “soggetto” della vicenda e si afferma il valore della famiglia degli affetti rispetto alla famiglia basata sul vincolo di sangue. Ora, pur non essendo nato da un’iniziativa uniforme e, pur risentendone sotto alcuni profili (ad esempio la frantumazione della competenza tra vari giudici), il sistema della giustizia familiare ha tuttavia una sua coerenza e un suo rigore.

Esso pone alla propria base la laicità della famiglia: lo Stato non propone un suo modello, ma dice ai coniugi: “comportatevi come volete, educate i figli come volete, basta che non avvengano pregiudizi nei loro confronti. In quel caso allora io Stato intervengo, ma fino a che le relazioni funzionano, non voglio sapere né indicare il segno sotto cui devono svilupparsi”. Non c’è un modello che lo Stato preordina e propone; c’è la ricerca della parità dei coniugi all’interno del matrimonio e c’è la tutela della figura più debole, che è appunto per antonomasia il minore.

Direi che questo sistema, nonostante l’inadeguatezza di qualche norma, gli errori dei giudici e la delicatezza delle situazioni in cui si è chiamati ad intervenire, ha funzionato.

Bisogna tenere presente che per il diritto è una novità entrare nei sentimenti, nelle relazioni affettive. Il diritto è molto legato al fatto, è abituato a guardare all’indietro, al momento in cui il gesto è stato compiuto.

Qui si tratta di un diritto che prova a capire le pieghe dell’animo umano, il significato delle relazioni e il loro futuro; quindi è un ambito scivoloso, esposto a errori dovuti anche al paternalismo di alcuni giudici, o al loro “delirio di onnipotenza”. Quando valutiamo le novità introdotte, come l’affido congiunto o condiviso, oppure i tentativi che l’esperienza giudiziaria sta facendo rispetto alla tutela dei minori in difficoltà, dobbiamo tenere presente che è difficilissimo intervenire in queste situazioni.

Le difficoltà (e quindi le polemiche con conseguenti campagne di stampa) si sono accentrate in due istituti che sono fondamentali nelle relazioni familiari. Il primo è quello dell’affido dei figli in occasione delle separazioni e dei divorzi (c’è una norma che affronta in modo analogo la fine delle convivenze di fatto e quindi il destino dei bambini nati in quelle situazioni). Qui il legislatore è intervenuto introducendo, come modalità di separazione, l’affido condiviso dei figli minori.

Un altro punto drammatico è stato quello delle adozioni, tema che mantiene una forza dirompente. Quello che fa problema è la rescissione del vincolo di sangue in favore di un futuro fondato sul vincolo degli affetti. E’ un principio che a parole nessuno contesta: quando la Dal Canton, la proponente della legge del 1967, portò il suo disegno in Parlamento, furono tutti d’accordo. Nonostante questa adesione, restano tuttavia delle riserve intime a moltissimi livelli, che poi riemergono con forza quando la televisione inquadra il lettino rimasto deserto, con l’orsacchiotto del bambino allontanato dalla sua famiglia.

Possiamo parlare dell’affido condiviso?

Sono stato tra i fautori di questo cambiamento del modello che regge l’affido dei figli in occasione delle separazioni. Ma lo vedevo inevitabilmente collegato ad un intervento di servizi e di competenze che preparassero i coniugi a questo tipo di condivisione di responsabilità. Questo modello mi aveva coinvolto e del resto si era diffuso in molti Stati d’Europa già nel decennio 1980-1990: in Spagna nell’81, nel Regno Unito nel ’91, in Francia nel ’93, in Belgio nel ’95; in questi paesi era stato già abbandonato il modello dell’affido esclusivo.

Quando ero al Consiglio Superiore iniziai a interrogarmi con un gruppo di giudici minorili sul tipo di modello che la vecchia formula proponeva. Era il periodo in cui si parlava molto della “società senza padre” e dovunque si lamentava una crescente intolleranza a sottostare a delle regole, a dei limiti da parte dei bambini e dei ragazzi.

Una delle ipotesi era appunto che a questi bambini mancasse il senso della legge. Ora, il senso della legge deriva da come ha funzionato la figura paterna, perché è il padre che, a livello simbolico, pone appunto il limite all’onnipotenza infantile.

Questo è un problema che certo non riguarda solo le vicende che si concludono con la separazione, ma anche le famiglie che funzionano; e non riguarda solo i padri, ma l’uomo in generale. C’è una crisi di sicurezze e quindi di capacità di trasmettere valori da parte dell’uomo. Fin dal “Ciao maschio” di Ferreri, alle donne in carriera della filmografia americana, “Kramer contro Kramer” a “La guerra dei Roses”, è un tema da tempo ricorrente.

La mia domanda era se non avessimo avuto parte anche noi, per la legge che applicavamo ed il modo in cui lo facevamo, in questa scomparsa del padre. L’affido esclusivo infatti, pur essendo inteso a mantenere la titolarità della potestà genitoriale di entrambi, fa sì che solo uno la eserciti, e ciò di fatto esclude uno dei termini della relazione genitoriale.

Avevo anche esemplificato come funzionava il meccanismo rispetto alle varie decisioni da prendere nei confronti dei figli: tutte quelle “quotidiane” spettavano alla madre, tutte quelle più importanti spettavano alla madre, e il padre poteva solo andare dal giudice. Nel 93% dei casi l’affido veniva dato alla madre; quando il padre cercava di recuperare spazi incontrava grandi difficoltà, perché questi spazi andavano recuperati in un contesto che era già stato delineato tutto dalla madre (la scuola da frequentare era quella vicina all’abitazione della mamma, lo stesso per la piscina, ecc.). Tant’è vero che al padre spesso non restava che chiedere al giudice: “affidalo a me, così da ricostruire un contesto in cui posso dare il mio contributo”; e il giudice, che aveva già detto no nel 93% dei casi, continuava a dire no.

Mi sto esprimendo in modo forse troppo drastico, ma, in sostanza, questo era l’esito dell’applicazione di una legge da parte di giudici che erano anche influenzati da una cultura in cui la donna rimane la tutrice della figliolanza. Del resto è sempre stato considerato incommensurabilmente più traumatico colpire la madre nella sua inettitudine a tenere con sé il bambino, che non confermare l’estraneità del padre a un’attività che comunque non era “fatta per lui”. Cosa dice il nuovo modello?

L’affido condiviso parte dall’assunto che con la separazione, il divorzio, non viene a cessare il diritto del minore a poter avere relazioni significative sia con la madre, sia col padre, nonostante essi come partner si siano divisi. Questo, più che una rivalutazione dei diritti del padre, è un riconoscimento e un tentativo di realizzare il diritto del figlio ad avere entrambi.

Resta il paradosso che questa rivalutazione dei diritti e doveri del padre, e quindi il recupero di una condivisione, avvengano nel momento della separazione, che ci si proponga di superare un’infinità di incomprensioni, attriti, disistime, trascinatesi durante il rapporto senza possibilità di composizione, proprio nel momento del conflitto.

Ma non c’è altro da fare e, del resto, io confido che, con il tempo, il modello richiamato in occasione della separazione informi di sé le relazioni familiari lungo tutto il loro percorso. Insomma, parliamo di un obiettivo difficilissimo e infatti le obiezioni non sono mancate. Qualcuno ne ha lamentato la complicazione, ma non è il modello che complica la realtà. E’ bensì quest’ultima a essere divenuta di una complessità tale da dover essere riconosciuta e affrontata nei suoi poli dialettici, e non eliminandone uno, come faceva il vecchio modello. Gli avvocati hanno subito denunciato: “Aumenterà la litigiosità”. Beh, chi queste cause le segue da decenni, sa che i punti su cui il confronto tra i partner sarà più arduo sono gli stessi su cui attualmente i tribunali sono chiamati a decidere, e cioè il regime delle visite, la casa coniugale, il cambio di residenza, ecc. La litigiosità è inevitabile in questa materia, dato che parliamo di persone che non riescono a risolvere da sé i loro problemi e devono ricorrere ai giudici.

Nel ’95 c’è stata una sentenza importante della corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Si trattava del caso Bove contro Italia: il signor Bove aveva citato in giudizio l’Italia (attraverso il giudice) e la moglie, lamentando che questi gli avevano impedito di realizzare il suo diritto di visita rispetto al bambino, e ottenne un risarcimento del danno per violazione di quell’articolo 8 che garantisce di vivere la propria condizione familiare in modo pieno e armonico.

Questo per dire che, se parliamo di conflittualità, nel vecchio modello la condizione del genitore non affidatario era potenzialmente molto più conflittuale. Un’altra osservazione nei confronti di questo nuovo istituto, è che l’affido condiviso può essere applicato solo quando tra i coniugi non c’è conflittualità. Beh, anche questa è una considerazione bizzarra, perché di fatto si dice che questo istituto giuridico vale quando evidentemente non occorre applicarlo. A mio avviso, questo nuovo modello supera molti degli aspetti negativi impliciti nel precedente e imposta in modo corretto, a tutela del minore, il problema della crisi del rapporto.

Lei auspicava anche l’introduzione di una fase di mediazione. Com’è andata a finire?

Io francamente davo per presupposto che fosse obbligatorio, prima di rivolgersi al giudice, passare attraverso una fase di mediazione, proprio per tutte le difficoltà già menzionate. All’estero, la mediazione è un’esperienza che sta avendo cultori e successo; in Italia ha avuto un periodo di assecondamento forse eccessivo, vedendosi in esso quasi una panacea universale; dopodiché, come spesso avviene nel nostro paese, si è passati dall’apoteosi all’anatema e con la scorsa legislatura il discorso della mediazione è diventato un macigno insormontabile per l’applicazione della legge.

Dunque cosa intendiamo per mediazione? Non certo che è necessario raggiungere la composizione, ma semplicemente che è obbligatorio passare attraverso un tentativo di mediazione guidato da persone competenti. Non è una figura insolita nel mondo dei diritti: fasi obbligatorie di mediazione sono previste nel mondo del lavoro, nel mondo commerciale, ecc.

La cultura prevalente nella legislatura passata purtroppo ha considerato tutto questo come un puro intralcio, adducendo come motivazione che questa fase di mediazione sarebbe priva di garanzie. E’ un aspetto del “postgarantismo”, cioè un’esasperazione di richiesta di autonomia, con il conseguente salto di qualsiasi controllo e confronto.

Insomma, la mediazione non è passata e si è arrivati a questo assurdo per cui, come dice la legge, diventa obbligatoria non più la fase di mediazione ma la condivisione, il consenso, l’accordo dei coniugi; il che è davvero paradossale. “Il giudice provvede tenendo conto della modalità concordata dai coniugi e motivatamente espressa nel progetto di affidamento condiviso obbligatoriamente allegato alla domanda di separazione”.

La norma che si è voluto eliminare era a mio avviso molto opportuna e adeguata e diceva “in tutti i casi di disaccordo, nella fase di elaborazione del progetto condiviso, le parti hanno l’obbligo, prima di adire il giudice, salvo i casi di assoluta urgenza e grave ed imminente pregiudizio per il minore, di rivolgersi ad un centro di mediazione pubblico o privato”. Se poi questo obbligo non portava al risultato della condivisione e dell’accordo, allora sì, il giudice interveniva con le vecchie modalità: individuava la migliore ipotesi di un affidatario esclusivo regolando i diritti di visita dell’altro.

Ora, questo ricorso alla mediazione è rimasto, in modo del tutto anomalo oltre che residuale, nell’ultimo punto dell’articolo 155 riformato, che dice: “qualora ne ravvisi la necessità il giudice, sentite le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui l’art. 155 ... per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo”.

Cioè, quando già si sono armati, affrontati, scontrati, allora, ma solo se sono entrambi d’accordo, si sospende la procedura e si mandano i coniugi da un mediatore. Ma anche per il giudice un conto è avere a che fare con dei coniugi che sono già stati preparati ad affrontare le incomprensioni o i mancati riconoscimenti reciproci, attraverso la mediazione iniziale; a quel punto il giudice, convocandoli, può aiutare a trovare una via d’uscita. Ma in una situazione in cui i due siano stati lasciati soli, senza alcun appoggio tecnico, psicologico, senza alcun aiuto, francamente non so cosa potrà poi fare il giudice, che, tra l’altro, non è preparato sotto il profilo psicologico...

Questa mi pare la critica più rilevante che si può fare a questa legge. Ci sono anche altri difetti, sotto il profilo procedurale per esempio, perché non risolve lo sdoppiamento tra figli di matrimoni e figli di coppie di fatto. C’è poi la questione della revoca dell’assegnazione della casa ex coniugale, che viene affrontata in modo discutibile. Qui infatti il discorso fondamentale è che adesso il figlio dovrebbe ottenere in egual misura, salvo conguaglio economico, un’assistenza diretta da ciascuno dei genitori.

Evidentemente non tutte le situazioni consentono questo doppio riferimento logistico, quindi ci sono diverse riserve e dubbi. Questa, del resto, è una materia in cui la legge non può imporre comportamenti, perché non sono esigibili esattamente, però può proporre dei modelli che agevolino determinati comportamenti. Fino a oggi la donna che si sposava veniva tranquillizzata dalla mamma o dall’amica o dall’avvocato per il caso che il matrimonio fallisse: “Non preoccuparti, se c’è un bambino lo danno a te, se c’è una casa la danno a te in quanto assegnataria del bambino; e dopo si comincerà a parlare, da questa posizione di sicurezza e di forza, delle questioni economiche”. Ecco, oggi i giovani che si vogliono sposare sanno che c’è una diversa richiesta nei loro confronti, di compartecipazione all’educazione dei figli, che non verrà meno neanche in occasione della separazione.

C’è evidentemente anche una motivazione storica alla base di questa novità: l’affido esclusivo corrispondeva al modello di famiglia dell’Ottocento e in gran parte del Novecento, con la madre destinata all’accudimento quotidiano, e il padre investito delle decisioni più importanti. Qui davvero c’è stato un cambiamento radicale nei costumi, che ha visto una compartecipazione crescente dell’uomo, del padre, nella gestione del bambino.

Noi siamo tra gli ultimi, ma in Europa il numero dei padri che chiedono il trattamento di “maternità” è sempre maggiore: la mamma va a lavorare e loro stanno a casa. Insomma, non è più come prima, c’è una competenza che comincia ad affinarsi; pertanto non solo si può ricorrere con maggior fiducia al padre come educatore, ma sarebbe un peccato disperdere questa risorsa. Ecco, io spero che col tempo questo modello, nato tra tante difficoltà e però fermo sul diritto del figlio a non vedersi confiscato nessuno dei genitori, possa mettere in moto qualcosa di buono.

Come si concretizza un progetto di affido condiviso?

Questo ovviamente la legge non lo dice, ma sembra ipotizzare come clausola più frequente quella dell’uguale tempo vissuto con l’uno e con l’altro genitore; il che chiaramente è molto difficile, per quanto rimanga l’obiettivo a cui si mira. In questo modello c’è anche una rivalutazione dei rapporti con i nonni, con i parenti; questo è l’esito di vicende giurisprudenziali in cui i nonni materni o paterni si erano ribellati alla loro esclusione. Questo diritto di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale va comunque giudicato positivamente.

L’affido avviene secondo le modalità che il progetto condiviso prospetta. Se c’è disaccordo spetta al giudice stabilire i modi e i tempi della presenza dei figli presso ciascun genitore. Questo è abbastanza intrusivo. La potestà rimane esercitata da entrambi i genitori. (I giudici minorili pensano si sia persa l’occasione per cambiare il termine potestà con quello di “responsabilità”). Resta poi sempre la possibilità che il giudice escluda uno dei due genitori dalla figura di affidatario.

Diceva che l’altro nodo spinoso, nel diritto di famiglia, è l’adozione...

L’istituto dell’adozione ha molte sfaccettature e coinvolge molte figure, tra cui il giudice e i servizi sociali. (Già qui sorgono dei problemi, perché l’operatore sociale che coopera col giudice in una vicenda che porta all’adozione, viene immediatamente squalificato, non solo agli occhi di quella famiglia ma dell’intero quartiere, perché rappresenta la longa manus del Tribunale e il Tribunale è quello che porta via i bambini ai genitori...).

Come ho già detto, l’idea di una paternità e maternità degli affetti nasconde obiezioni e riserve anche inconscie. Va anche sottolineato che le adozioni nazionali, che presuppongono uno stato di abbandono verificato dai nostri giudici, sono in continuo calo. Questo per vari motivi: perché la ragazza madre, che una volta si vergognava di tenere il bambino, ora viene sostenuta, anche grazie ai servizi che intervengono e toppano le crisi più acute; perché c’è un controllo sulla natalità più avveduto, eccetera. Tra i giudici c’è sempre stato un approccio diversificato: chi vedeva nell’allontanamento del bambino un’ulteriore offesa alla povertà; chi invece metteva il dito sul depauperamento affettivo e culturale indissolubilmente legato a quello sociale ed economico e quindi constatava che i genitori, a prescindere dal fatto che ne avessero colpa o meno, non riuscivano a dare al bambino ciò di cui ha bisogno.

In sostanza, oggi è sempre più difficile progettare un intervento nell’ottica dell’adozione, per cui si preferisce affrontare queste situazioni con l’ottica dell’affido temporaneo e provvisorio.

L’affido provvisorio è pensato per supportare delle difficoltà temporanee della famiglia di origine, contando appunto sul suo recupero, per cui il messaggio ai genitori affidatari è: “Guardate che quel bambino tornerà in quella famiglia e quindi dovete essere pronti al distacco quando l’emergenza sarà rientrata”. In realtà, l’esperienza ha dimostrato che sovente si tratta di una toppa che non solo non influisce sulle difficoltà socio-economiche dei genitori (per non parlare dei casi di psicosi gravi), ma fa sì che questi affidi temporanei si trascinino fino al diciottesimo anno di età, quando il ragazzo non ha più alcuna garanzia non essendo affidato a nessuno. D’altra parte, la famiglia di origine, anziché cooperare, tende a mettere in atto meccanismi di rivendicazione nei confronti del figlio: “Adesso che puoi lavorare, aiutaci”, dando vita a situazioni molto penose.

Il Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza ha fatto un’indagine da cui risulta che dei 10.200 bambini dati in affido familiare in Italia alla data del 30 giugno ’99, solo il 42% è rientrato in famiglia. Quindi nel 58% dei casi è stato applicato un istituto sbagliato: se il rientro in famiglia non era possibile, era molto meglio sciogliere quel rapporto e inserire il bambino fin da subito nella famiglia adottiva disponibile. Come sappiamo, oggi la disponibilità delle coppie nei confronti dei bambini è molto ampia (si tratta poi di vedere quanto è autentica e come valutarla). Ad ogni modo, negli anni 2001 e 2002, nel distretto di Bari e Foggia, ci sono state 887 domande di adozione nazionale a fronte di 43 bambini dichiarati adottabili. Non voglio dire che fossero tutte vocazioni autentiche, però i numeri sono impressionanti.

Il fatto è che oggi c’è una zona grigia di abbandono che non è più fatta di violenze o di esplicito rigetto, bensì di ottusità, silenzi, incuria, incapacità, eccetera. Allora, mentre la violenza la verifichi in pochi giorni, questo stato di incapacità affettiva e culturale richiede anni per essere accertato, nel corso dei quali si fanno dei tentativi, si spera, ci si illude e prima di scegliere una soluzione passa molto tempo.

Direi che questa fascia di “semiabbandono permanente” è diventata una caratteristica fondamentale della situazione attuale. Tra l’altro molte volte, quando si arriva a optare per l’adozione, l’affidatario che hai scelto non ha i requisiti per adottare, e d’altra parte quel ragazzo, che è stato tanti anni con lui, non può essere spostato a un’altra coppia di affidatari, che invece avrebbero i requisiti richiesti.

Molti lamentano dei requisiti troppo rigidi.

Non solo, quello che il genitore di sangue sopporta con più fatica è l’interruzione dei rapporti, forse perché legato a questo marchio di indegnità che deriva dalla affermata incapacità di essere genitori. E’ a partire da queste problematiche che si è deciso di recuperare un istituto nato in realtà per i casi speciali, ovvero l’adozione “mite”, che entra in causa quando, appunto, non è possibile fare un affido preadottivo. Fino a oggi ciò avveniva nei casi in cui nessuno voleva il ragazzo, perché handicappato grave, o “discolo”, nella dizione di un tempo. Se nessuno vuole quel bambino, allora è possibile fare l’adozione anche ad una persona sola, che acquisisce l’esercizio della potestà genitoriale senza interrompere i rapporti con i genitori.

In questi casi anche il limite di età passa in secondo piano: semplicemente dev’esserci una differenza minima di diciotto anni tra chi adotta e chi viene adottato. Rimane il cognome di origine, al quale si aggiunge quello dell’adottante; si richiede il consenso dell’adottando che abbia più di 14 anni; la potestà genitoriale passa all’adottante, ma non vengono interrotti i rapporti con i genitori naturali.

Ora stiamo assistendo a una riscoperta di questo strumento, che non viene più utilizzato solo quando nessuno vuole il bambino, ma anche quando non è più possibile spostarlo dalla situazione di affidamento in cui è stato, magari incoerentemente, inserito. Si tratta di un intervento che è un po’ una via di mezzo, cioè si introduce una nuova figura familiare, che può essere una coppia o una persona singola, senza però interrompere i legami con la famiglia di origine. Questo “nuovo” istituto è già stato sperimentato, in particolare dal tribunale di Bari, e con esiti molto favorevoli. Anche il tribunale per i minori di Trieste sta orientandosi verso questo progetto, che è un bell’esempio di cooperazione, perché coinvolge il Tribunale, che deve seguire una certa giurisprudenza; i servizi, che devono verificare più articolate attitudini; ma anche la popolazione, che deve esprimere nuove disponibilità. Ciò che colpisce in tutto questo è soprattutto il buon senso, ma aggiungerei che questa adozione cosiddetta “mite” è anche una formula più coerente alla trasformazione del modello familiare.

Si è sempre detto che l’adozione “imita” la famiglia; ora, il modello del ’67 imitava la famiglia di allora, composta appunto da un padre e una madre sposati e dai figli da loro nati. Oggi però il modello familiare non è più solo questo: ci sono sempre più famiglie in cui il nuovo nucleo, nato dopo il divorzio, “si aggiunge” a quello precedente; in cui convivono fratelli che hanno solo un genitore in comune; e ancora le coppie di conviventi di fatto, eccetera. Inoltre è venuto meno quel divieto di conoscere le proprie origini, presente nelle prime leggi sull’adozione. Nel 1983 la legge sull’adozione ha subito un’importante modifica in base alla quale il figlio ha diritto, compiuti i venticinque anni, di assumere informazioni sulle proprie origini. E’ un diritto che la legge vede con molta cautela, infatti bisogna passare attraverso il giudice (e solo quando si è ormai adulti) per ottenere l’autorizzazione a conoscere la propria origine. Ma è un passaggio decisivo, perché è caduto il tabù del buio sulle proprie origini, che poi è un tema affascinantissimo. Il dubbio sulle proprie origini infatti non riguarda solo il figlio adottivo; tutti noi una volta almeno ci siamo chiesti: chi era davvero mio padre?

Melanie Klein, psicoanalista dell’età evolutiva, racconta che un giorno la sua bambina raccolse tutte le sue cose (aveva tre anni) e si diresse verso la porta. Lei le chiese: “Dove vai?”, la bambina rispose: “Vado a cercare la mia mamma”. L’adozione mite è interessante anche perché si basa sulla normativa vigente, sull’interpretazione di una norma esistente, pur nata con intenti diversi. Non è detto peraltro che sia un tema destinato a restare abbandonato alle iniziative dei giudici, perché già due proposte di legge vogliono introdurre l’adozione mite (la numero 5701 del 2005, presentata dall’onorevole Burani Procaccino, e la numero 5724 del 2005, presentata dall’onorevole Marida Bolognesi).

Diceva che resta un motivo di riserva grosso rispetto all’adozione mite...

Sì e riguarda il pericolo che questa comporti la fine dell’adozione “vera” o “forte”, che resta il modello di eccellenza di tutto il discorso sulla genitorialità, sulle relazioni affettive, sul cosa è essere padre, madre, eccetera.

Sullo sfondo resta poi la tensione al possesso esclusivo da parte dei genitori, naturali o adottivi che siano, in cui c’è sempre una forte componente di ego, magari inconscio. E poi ci sono casi in cui la famiglia di origine è proprio un pericolo per cui non si possono mantenere i rapporti tra essa e i minori.

L’aspetto difficile da superare è quello di questa ambiguità. Fino a poco tempo fa, ci si è guardati dallo scegliere come affidatario chi aspirava all’adozione, e viceversa, perché sono due vocazioni diverse. Ora stiamo introducendo l’ipotesi di una persona o coppia che nasce come affidatario provvisorio, temporaneo, ma è disposto a diventare un genitore adottivo, sia pure “mite”.

E’ un cambiamento radicale, che suscita perplessità, soprattutto sul piano teorico. Ma bisogna anche mettere in conto che, col tempo, le relazioni e anche le disponibilità si modificano; forse non è affatto escluso che una disponibilità nata come temporanea, nel corso del rapporto si consolidi e aspiri a diventare duratura.

A Trieste mi sono confrontato con i Servizi. C’è soprattutto da indagare come funziona questa doppia disponibilità, e come influiscono una sull’altra, se si limitano, o vengono compromesse. Perché il rischio è che io mi proponga come affidatario contando sull’adozione, e questo influisce anche sui rapporti che terrò con la famiglia di origine.

Con questo modello viene superato il distacco radicale, che spesso il tempo trascorso nella famiglia di origine rende peraltro impossibile e che rappresenta l’ostacolo più pesante che comporta l’adozione. Per un altro verso si sfrutta la disponibilità anche di coppie non sposate o di persone single. Certo, date queste condizioni, la possibilità di scelta, e quindi la discrezionalità, diventa molto ampia e così il sapere necessario a usarle. A volte si dice che i giudici sono investiti di troppa discrezionalità. A mio avviso questa è un’opportunità che va invece colta. Certo bisogna saperla usare; ma se l’ordinamento ti investe di un potere discrezionale, bisogna usarlo al meglio, non scappar via.

· UNA CITTÀ, n. 143 / novembre 2006

http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1545

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